Cinque ferite fatte di fuoco
«L’enormità della “forma una” cui conduce l’amore, fu in Francesco tale da causare nel suo corpo una sorta d’incontenibilità e, quale conseguenza, una terribile, sanguinante esplosione». Ultima puntata del ritratto del Santo di Assisi«L’amore ha questo officio / unir dui en una forma»: ha scritto di Francesco, il grande e concretissimo Jacopone.
L’enormità, intendo anche per ciò che concerne spazio e tempo, della “forma una” cui conduce l’amore, fu in Francesco tale da causare nel suo corpo una sorta d’incontenibilità e, quale conseguenza, una terribile, sanguinante esplosione. Sentite come, sempre Jacopone, ebbe a restituirci tale incontenibilità e tale esplosione.
«Quanto fosse quel foco / non lo potem sapire;
lo corpo suo tal ioco / nol potte contenire:
en cinque parte aprire / lo fece la fortura,
per far demostratura / che en lui era albergato».
Il riferimento, come ognuno avrà compreso, è all’evento finale delle stimmate. Siamo così giunti ad uno degli ultimi atti a uno degli ultimi fioretti, a una delle ultime pietre umilmente enormi dell’esperienza francescana; e su di esso converrà sostare proprio per darci un’ulteriore conferma della realtà totale, del corpo assolutamente presente che fu ogni atto della vita di Francesco; fin quello, forse, desiderato e voluto, ma scoppiatogli in quell’“una forma” cui s’era ridotto nei confronti di Cristo, che furono, per l’appunto, le stimmate.
Qui, il linguaggio delle Fonti diventa, nella sua concretezza, così fisico, così barbarico, da risultare ad ogni lettura pregno di sé come se, ad ogni lettura, le parole deputate a contenerlo volessero partorire anche se stesse ex-novo per essere ex-novo e completamente il loro stesso significato.
È il momento in cui l’“uscire dal mondo” di Francesco diventa quasi insostenibile. Ma è, insieme, il momento in cui il mondo viene da lui tutto penetrato e coinvolto nella stessa lacerazione delle piaghe che s’aprono dentro il suo corpo; penetrato, coinvolto ed allarmato. È il momento in cui al mondo “costruito” vien provato, e provato sulla carne e sulle ossa di un uomo come noi, che la salvezza gli è pur sempre possibile; e che l’agonia, se vissuta come tale, e non evitata o spostata, può essere, anzi è il tramite necessario perché tale salvezza si compia.
A proposito delle stimmate, Frate Elia nella sua lettera a Frate Gregorio, ministro della provincia di Francia, scrive: «le mani e i piedi di lui erano trafitti da chiodi penetrati dall’una e dall’altra parte e avevano delle cicatrici del color nero dei chiodi. Il suo fianco appariva trafitto da una lancia, ed emetteva spesso goccie di sangue». Ma Jacopone, al solito, va ben oltre nel suo processo d’avvicinamento alla realtà dell’evento:
«Encorporotte stimate, / lato, pede e mano;
duro fora a credere, / si nol contàm de
piano:
staenno vivo e sano / molti si l’ò ammirate;
la morte declarate, / da molti fo palpato.
Fra l’altra santa Chiara / si l’appicciò coi
dente,
de tal tesaro avara, / essa co la sua gente;
ma no i valse niente, / ca i chiovi eran de
carne;
sì come ferro stanne, / duro ed ennervato».
In altra Lauda, sempre Jacopone, sembra procedere ancor più innanzi e raggiungere il massimo di fisicizzazione e di incarnazione linguistica dell’evento delle stimmate:
«Tanto era l’amore acuto / che nel cor avea
tenuto,
che nel corpo si è apparuto / de cinque
margarite ornato.
De la fico abe figura, / che è grassa per
natura;
rompe la sua vestitura, / en bocca reca
melato».
Dove l’immagine, nella sua suprema vegetalità e carnalità si fa duramente e supremamente metastorica; e dove il «melato» che il fico, dunque, la ferita delle stimmate, versa nella bocca e nell’anima è evidente ripresa del passaggio, già citato del Testamento: quello dell’amaro che si tramuta in dolcezza.
Stretti a questa fisicità, che non possiamo levarci dall’anima e dal corpo (o, per riprendere la parola di Jacopone, dalla bocca) noi ci chiediamo se, infine, il cammino di Francesco, nella sua Imitatio Christi, non giunga a riproporci ciò in cui è consistita e consiste, in ogni momento dell’esistenza del cosmo, l’Incarnazione: l’identificarsi della realtà nella Verità, e della Verità nella realtà. Ed ancora: l’impossibilità per l’uomo (e per il mondo) di svolgere la propria storia aldifuori di tale identificazione; pena, creare una sovrastoria che non è, comunque la si voglia nominare in rapporto con la sua origine, con il suo senso e con il suo fine, bensì la progressiva svendita di se stesso verso un processo astrattivo che lo riduce a oggetto determinabile e, forse, in futuro, persino creabile dal meccanismo che, da sempre, ma oggi con una virulenza ed implicanza dovute, tra l’altro, all’assommarsi e al sovrapporsi dei tentativi, via via operati; d’un meccanismo, dicevo, che ha come proprio fine la parodia del Padre; cioè a dire l’entità e la funzione dell’Anticristo.
L’agonia in cui il Padre ci ha chiamati a vivere non è, lo torniamo a ripetere, inevitabile. Essa risulta, per così dire, la prima Croce; la croce, ecco, di partenza. Questo non significa che tale agonia non sia riconoscibile e nominabile. Anzi. Malgrado l’intasamento delle apparenze noi viviamo infatti, in un tempo in cui l’irrealtà prevale sulla realtà; un tempo in cui la non-verità o la verità spostata e “costruita” prevale sulla verità incentrata nella sua origine, dunque, sulla verità incarnata: e prevale fino a lasciar ritenere come fatale che realtà e Verità, nel loro coincidere primo ed ultimo che fu ed è il Cristo di Betlemme e il Cristo del Golgota, possano venir sopraffatte, schiacciate ed eliminate; e che anche l’uomo, come il mondo, possa venir completamente “costruito” o “sovracostruito”. Il che sarebbe la nominazione di ciò che, un tempo, si chiamava “caso”, ma eseguita a pro d’una potenza antitetica all’origine e al senso primo e ultimo dell’essere; a pro di quella potenza che abbiam nominato Anticristo.
Se il nostro tentativo d’avvicinare il Santo d’Assisi, restando il più possibile dentro i suoi atti e le sue parole e dentro gli atti e le parole dei suoi contemporanei, è approdato a un significato, esso dovrebbe porci, come chiusura, la seguente
domanda: concretamente, nella concretezza pesante e dolorosa dell’anima e del sangue, cosa può dirci, oggi, lui, S. Francesco?
Dentro la malattia in cui viviamo, tanto più atroce e terribile quanto più tenta di renderci incoscienti dei suoi processi, che è malattia d’astrazione, dunque d’irrealtà, l’identificazione tra realtà e Verità che il Santo assisiate realizzò attraverso la croce della povertà e dell’oltranza caritativa non può non indicarci, ed in termini ultimativi, che, al punto in cui siamo giunti, la possibilità di rientrare dentro la Verità passa solo dall’assunzione totale di lei, la realtà come termine più vicino a tale identificazione; termine che forse è anche il più tangibile che il Padre, nella sua infinita carità, ci ha lasciato come ancora cui aggrapparci. Tutto questo implica, è ben certo, l’uscita dalle metodologie del mondo “costruito”, fattosi oggi mondo irreale; ma uscita per riafferrare il mondo “creato” e, in esso, toccare la cellula originaria da cui partire per spostare il cammino che sembra volerci condurre alla verifica di tutta la distruzione possibile. Tale cellula è, nello stesso tempo, l’impronta della mano creatrice del Padre e il corpo crocifisso e risorto del Figlio; un corpo che, come quell’impronta, s’è spezzettato e si spezza in ognuno di noi che siam nati; così come in ogni parte del creato e del cosmo; quello già noto e quello a noi ancora ignoto; dunque, in ogni parte dello spazio e in ogni svolgersi del tempo. Ma tra l’impronta e il corpo, nell’insondabile mistero della Trinità, scatta, con una contemporaneità a noi inspiegabile, la luce dello Spirito. Ogni nostra necessità vien così a conoscere il suo punto di partenza reale e il suo punto di reale arrivo; anche quelle necessità che riguardano il conoscere e il sapere, che così tanto agitano ed affermano le nostre menti. Si tratta però d’un conoscere e d’un sapere riferiti non più all’astrazione di se stessi, ma alla concretezza della Verità da cui hanno avuto e avranno per sempre origine; e questo riguarda tanto il più minuto dettaglio del tempo e dello spazio, quanto il loro sunto generale.
È probabile che anche quelli che siam soliti leggere o far leggere come racconti d’edificazione, quanto dire gli incontri e i discorsi di Francesco con gli animali, entrino in questa semplicissima, ma abissale accettazione e venerazione del tutto-Padre, tutto-Figlio e tutto-Spirito che il realismo del Santo ha, come sempre, stretto in un’ellisse-abbraccio, entrino cioè nell’inscindibile santità del Cosmo e nella coscienza che la Redenzione riguardò tutta e intera la totalità del Cosmo. Su tale ellisse e su tale abbraccio vorremo chiudere anche questo nostro tentativo d’interpretazione; sapendo che da esso, come ci viene amore, così ci viene ammonimento; come ci viene letizia, così ci viene allarme; come ci viene consolazione, così ci viene, e fortissimo, il senso delle nostre responsabilità di figli che il Padre ha voluto vivessimo la presente, dura e terribile agonia della sua sterminata creazione.
Ma prima che sia veramente possibile ogni gesto di congedo, un’altra domanda ci vien avanti. Dura e dolce: clemente ed insieme inclemente, essa ha l’aspetto del «foco» di cui parlava Jacopone; certo non risulta rifiutabile o trasferibile ad una sua qualunque alternativa.
La domanda, anzi il «foco», è il seguente: in che consiste qui e adesso, il farsi povero che fu per Francesco tramite primo e assoluto dell’identificazione della realtà dentro la Verità e della Verità dentro la realtà? Esattamente, come allora, nel rifiuto totale degli averi; e dei connessi poteri. Anzi, nella ricerca continua, assetata e affamata, di tale rifiuto. Senonché, oggi, averi e poteri, pur restando nel fondo gli stessi, hanno spostato i termini del loro realizzarsi. Così ci pare che la povertà, di cui Francesco fu in Cristo e per Cristo amante e sposo tenace e fedelissimo, conglobi il rifiuto di quei particolari averi e poteri che portano il nome e il sigillo astraenti del “sociale”, inteso quale principio e movente dello stesso esistere; con tutte le connesse ideologie; la degradazione delle quali e il loro trasformarsi in inerzie succubi e passive, è segno non più rinviabile del cieco disporsi dell’uomo a essere non più agente della mitologia “sociale”, ma suo servo; dunque persona agita; infine, oggetto e non più persona.
Ed è altresì segno del rischio che la medesima operazione venga estesa su tutta e intera la creazione. Che tale tentativo, per la sua stessa negazione, dunque per la sua stessa irrealtà di partenza, sia destinato a sfociare in una catastrofe, non fa che rendere più estremo il dovere d’ogni uomo d’abbracciarsi alla realtà “creata”; sia pure ai suoi frammenti ed ai suoi lacerti, ancora rintracciabili; proprio come fece Francesco alla croce; sapendo che solo dentro la realtà abita il segno a noi visibile della Verità; sapendolo, ma anche non sapendolo. Poiché la Verità ha più forza della nostra eventuale inconsapevolezza e della nostra eventuale incoscienza; così come ha più forza della nostra eventuale presunzione di dirci cristiani senza che si tenti sempre, e per come possiamo, d’esserlo nella rugosa, affaticante e buia realtà d’ogni alba, d’ogni mezzogiorno, d’ogni sera e d’ogni notte che il Padre ci mandi; e dentro, di essi, d’ogni implicazione cui non ci è possibile sottrarci se non per soffrirle e parteciparle ancor più a fondo. In questo modo ci sembra non del tutto improprio che il congedo possa avvenire nell’affermazione che si ricava come sunto dell’intera esperienza di Francesco. E cioè che il solo ascolto possibile della Parola abita nel tentativo di incarnarla, dunque, di farla conoscere per ciò che essa è; l’origine, la creta, la struttura, la ragione e la forma e la salvezza della realtà.