«Essere un uomo, questo m’interessa»

ANNIVERSARI - ALBERT CAMUS
Fabrizio Sinisi

Vivere non è una condizione, ma una domanda. Che fa gridare all’imperatore Caligola: «Non c’è niente che mi vada bene. Eppure sono certo: mi basterebbe l’impossibile». A cento anni dalla nascita, un giovane drammaturgo italiano rilegge l’autore francese. Per andare al cuore della sua opera

C’è un filo sottile ma tenace che lega due frasi dei due più importanti maîtres à penser del secondo Dopoguerra, Jean-Paul Sartre e Albert Camus: lì dove il primo, nel breve manifesto del 1946 L’esistenzialismo è un umanismo, aveva scritto che «ciò che è assolutamente impossibile all’uomo è non scegliere», il secondo metterà in bocca ad uno dei protagonisti de La peste (1947) queste parole: «Essere un uomo, questo m’interessa».
Ecco, se esiste adesso, nel centenario della sua nascita, la possibilità di separare finalmente Albert Camus dal fascio dell’esistenzialismo francese (insieme al quale viene sempre troppo frettolosamente nominato), essa sta proprio nella sua concezione eminentemente drammatica della nozione di umanità. Essere umani, per Camus, non è una condizione: è una domanda.

Tutto o nulla. È abitudine comune quella di legare il nome di Camus, giornalista, scrittore, autore di teatro e tanto altro, alle sue prese di posizione politiche: dalla militanza nella cellula partigiana Combat alle dimissioni dall’Unesco contro l’entrata nell’Onu della Spagna franchista, dalle critiche ai Soviet alle ripetute prese di posizione contro la pena di morte. Ma c’è all’origine del suo impegno un basso ostinato e continuo, di cui le opere sono il testimone persistente: ed è questa domanda sull’essere dell’uomo, sui fondamenti del suo stare al mondo - questioni che gli premono prima ancora di ogni legittimità sociopolitica. Ed è questa una domanda che l’uomo ha il dovere di porre innanzitutto a se stesso, come nel 1942 scriverà nel Mito di Sisifo: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o no la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».
È la razionalità stessa a chiedere, anzi ad esigere, questo superamento di se stessa, l’implorazione di un oltre che la storia così com’è sembra negare: «Voglio che mi sia spiegato tutto o nulla. E la ragione è impotente di fronte a questo grido del cuore. (...) L’uomo si trova davanti all’irrazionale e sente in sé un desiderio di felicità e di ragione. L’assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo», per poi - significativamente - aggiungere, da ateo convinto, a chi adulandolo lo etichettava appunto come un teorizzatore dell’assurdo: «L’assurdo è il peccato senza Dio».
Per questo, alla luce di questi cento anni (era nato il 7 novembre, in Algeria) che finalmente permettono di leggere Camus con il distacco che merita, egli ci appare il ricettore di una domanda sull’uomo che non lascia scampo. Se, come scrive nei suoi Taccuini, «la cultura è il grido degli uomini davanti al loro destino», è proprio nella cultura che andrà verificata l’insufficienza di un neopositivismo di cui Camus si trova a vivere, nel contempo, la catastrofe e la tentazione: «Ho bisogno di sentire il mio essere nella misura in cui egli esprime il sentimento di ciò che mi sfugge. Ho bisogno di scrivere cose che in parte mi sfuggono, ma che rappresentano appunto una prova di ciò che in me è più forte di me». «Chiamo imbecille», dice, «colui che ha paura della gioia»: una gioia per cui l’uomo è fatto, per cui vale la pena lottare. Del resto, il fare arte è, di per sé, lo stigma di questa lotta: «Una letteratura disperata», scrive in Estate, «è una contraddizione in termini».
C’è un’opera su cui Camus è tornato più d’una volta, arrivando a scriverne ben tre versioni distinte: è il dramma Caligola. Il personaggio dell’imperatore pazzo diventò per lui il luogo di verifica di un’intuizione fondamentale: e cioè che la disperazione possa essere una possibilità di conoscenza che l’appagamento, invece, non consente. Caligola è a monte di ogni interpretazione vitalistica o eroica del suo comportamento. È un serio, pervicace e potremmo dire “leale” disperato: dopo la morte dell’amata Drusilla, il suo atteggiamento e la sua gestione del potere sembrano orientati al solo fine di tastare le pareti di una libertà tanto sconfinata da risultare insignificante; una libertà così virtuale da assumere i caratteri di una prigione: «Questo mondo così com’è non è sopportabile. Gli uomini muoiono e non sono felici. (...) Come venirne fuori? Fare un contratto con la propria solitudine, no? Mettersi d’accordo con la vita. Darsi delle ragioni, scegliersi un’esistenza tranquilla, consolarsi». Ma la consolazione non può soffocare un desiderio che sembra oltrepassare le forme stesse del conosciuto: «Io sono animato da una passione troppo forte per la vita. La natura non le basterà mai».

L’assassino. Caligola concepisce se stesso a partire dall’ustione di un desiderio incolmabile, di un vuoto in cui si trova quasi suo malgrado a consistere. Ed è qui, a partire da questa constatazione, che si verifica la scissione fra il Caligola imperatore e il Caligola uomo: l’imperatore svanisce e affiora tutta la prepotente invadenza di un io che è mancanza, voragine di nostalgia: «Io non sono niente. (...) La tenerezza! Ma dove trovarne tanta da soddisfare la mia sete? Dove trovare un cuore profondo come un lago? Non c’è niente che mi vada bene, né in questo mondo né in quell’altro. Eppure sono certo, ed anche tu lo sei, che mi basterebbe l’impossibile. L’impossibile! L’ho cercato ai confini del mondo e di me stesso. Ho teso le mani. Tendo le mani e non incontro che te, sempre te, come uno sputo sul mio viso».
Lo stesso accadrà nell’altro grande personaggio-mito di Camus, il mite assassino Meursault, protagonista de Lo straniero: l’uomo estraneo al proprio desiderio risulta estraneo a se stesso, il proprio io gli è lontano tanto quanto la realtà stessa si fa distante e irraggiungibile. Senza porre le radici nel clamore della propria mancanza, l’uomo diventa come Meursault: un puro riempimento dello spazio, una soggettiva neutra per cui non corre alcuna differenza fra un bagno in mare e un omicidio.
Ecco, la disperazione, secondo Camus, ha i termini dell’alternativa fra Caligola e Meursault: l’alternativa fra un’estrema sofferenza e l’accecamento del torpore.

L’uomo non è un’idea. In un suo straordinario romanzo del 1947, La peste, Camus racconta l’arrivo della peste bubbonica nella città algerina di Orano. Isolata dall’esterno per impedire la diffusione del morbo, la città rimane prigioniera del suo male. La peste diventa, paradossalmente, un eccezionale e drammatico osservatorio in cui interrogare la natura dell’uomo, collocarlo in una condizione di emergenza permanente: come si reagisce alla peste? Che cos’è l’uomo, e come si comporta quando è messo catastroficamente in una tale intimità con la morte?
In un panorama in cui «la peste aveva eliminato ogni giudizio di valore», appare subito chiaro come sia insufficiente un atteggiamento puramente volontaristico: «Io ne ho abbastanza delle persone che muoiono per un’idea. Non credo all’eroismo, so che è facile e ho imparato ch’era omicida. Quello che m’interessa è che si viva e che si muoia per quello che si ama. (...) L’uomo non è un’idea, Rambert».
E proprio il personaggio di Rambert, un giornalista capitato per caso ad Orano, e costretto dall’epidemia a non poter lasciare la città, rivela come un male possa far scaturire quanto nell’uomo è di più forte e personale: pur essendo riuscito, dopo molti tentativi, a trovare un modo di fuggire da Orano, Rambert decide infine di non partire, e di rimanere nella città appestata: «Rambert disse che se fosse partito ne avrebbe avuto vergogna; e questo avrebbe guastato il suo amore per colei che aveva lasciato». O come il colto gesuita padre Paneloux, che dapprima accusa i suoi concittadini di aver meritato il castigo divino, e solo dopo aver assistito alla terribile morte di un bambino guarderà la peste con occhi nuovi, senza cedere di un passo: passando significativamente dal «voi» al «noi», afferma la radicalità che è chiesta alla fede in un momento tanto definitivo e drammatico: «Fratelli miei, il momento è venuto. Bisogna tutto credere o tutto negare».
La peste passerà. Ma il dottor Rieux, altro personaggio capitale, capisce bene che il punto della questione non è passato affatto. C’è qualcosa che resiste, e che proprio la peste ha saputo far emergere e rendere cruciale: il motivo per cui vale la pena vivere, un motivo valido per non morire, l’oggetto di ogni umana speranza a rimanere nel mondo: «Sì, si sarebbe riposato lassù. Perché no? Sarebbe anche stato un pretesto per la memoria. Ma se questo era guadagnar la partita, come doveva esser duro vivere soltanto con quello che si sa e che si ricorda, e privi di quello che si spera. (...) Non vi è pace senza speranza».