Osare la ragione

INTERVISTA - LEON WIESELTIER
Mattia Ferraresi

«La conoscenza emerge sempre in un rapporto». Ma oggi è in atto un assalto al significato e alla memoria. Un dialogo con l’intellettuale ebreo americano che dalle colonne di The New Republic ha sempre difeso la cultura umanistica. Contro una mentalità in cui l’assoluto non è «vivo». E c’è una sola domanda lecita: «Come funziona?»

Leon Wieseltier non ha mai preso in considerazione l’opzione della fuga. Il posto dell’intellettuale è al centro della piazza o, se necessario, in trincea. Di certo non in quelle stanze ordinate in cui la polvere è la presenza più viva e gli eruditi si narrano vicendevolmente le rispettive gesta soltanto per sentire, una volta ancora, il suono della propria voce.
Wieseltier, pensatore ebreo e da oltre trent’anni direttore della sezione culturale del magazine The New Republic - roccaforte della sinistra intellettuale americana - è una creatura onnivora. Nulla di ciò che gli si para innanzi cade fuori dallo spettro dei suoi interessi, dalla politica al messianismo ebraico, passando per la poesia trobadorica e il cinema contemporaneo. «La mia educazione religiosa mi ha insegnato che tutto converge verso un’unica domanda, quella sul senso dell’universo», spiega Wieseltier a Tracce.
Di ogni cosa scrive con quella particolare ironia che può essere urticante, un tratto che non gli ha procurato molte simpatie negli ambienti dell’intellighenzia culturale. Alla Columbia University è stato allievo del critico Lionel Trilling e quando si è ritrovato a Oxford per un periodo di studio, il maestro lo ha affidato alle cure del filosofo Isaiah Berlin. L’ambiente accademico dominato dalla filosofia analitica non era adatto per questo giovane intellettuale illuminato dalla cultura umanistica classica e dai grandi del pensiero ebraico, su tutti Mosè Maimonide. La stessa cultura che dalle colonne di The New Republic e dalle cattedre di mezzo mondo difende da quella che chiama «una costante e nauseante denigrazione della conoscenza umanistica e del metodo umanistico», un addestramento che porta a «preferire le questioni pratiche a quelle di significato». E la mentalità promossa da un eccesso di tecnologia ha più di una responsabilità, secondo Wieseltier, in questa degradazione del sapere a disarticolato flusso di informazioni. Tutto cospira ad atrofizzare la ragione, a censurarne le velleità: «L’unica domanda consentita oggi è “come funziona?” Tutte le altre domande sono considerate insensate perdite di tempo». Agli allievi della Brandeis University, prestigioso college umanistico del Massachusetts, qualche mese fa ha detto che la «nostra ragione è diventata una ragione strumentale, non è più la ragione dei filosofi, con la sua antica ambizione intellettuale, la sua convinzione che i temi propri al pensiero umano siano i temi più vasti, e che la mente, in un modo o in un altro, possa penetrare i princìpi più autentici della vita naturale e della vita umana. La filosofia stessa è ripiegata sotto il peso della nostra debolezza nei confronti dell’utilitarismo». E ha concluso: «Voi onorate una civiltà che è stata fondata sulla ricerca del Vero, del Bene e del Bello». Su questo passaggio s’innesta la conversazione.

Vero, Bene, Bello: i trascendentali s’incontrano di rado nel discorso culturale, sembra quasi che non sia lecito ambire a qualcosa di simile o che non esistano affatto.
Ma certo che esistono! Il fatto che spesso non li riconosciamo non significa che non esistano. Lo scettico non è colui che pensa che non esista la verità, ma è quello che distrugge tutte le vie per arrivarci. Ci sono posti bellissimi e uno non lo sa finché non li vede: non è un buon motivo per dubitare che esistano. Alla Brandeis University c’era un altro punto che avrei voluto toccare: gli studi umanistici sono complici del loro stesso tramonto. Tanti umanisti negano le nozioni di Verità, Bellezza, Bontà. Posso capire perché, ma più vado avanti più mi risulta difficile e penoso vivere senza queste categorie.

Non le sembra che l’apertura della ragione all’assoluto sia ormai un tabù, specialmente nel suo ambiente?
Le persone hanno un’irrazionale paura degli assoluti. In parte è perché sono impaurite dalle conseguenze politiche degli assoluti, dall’assolutismo. Ma la cosa affascinante degli assoluti è che sono vivi, possono essere sempre discussi, attaccati, ripensati, arricchiti, messi in discussione.

Cosa significa?
Faccio un esempio: una volta ho tenuto un seminario su Mosè Maimonide all’università di Chicago e stavamo discutendo delle sue prove dell’esistenza di Dio, che sono forse la parte più debole della sua filosofia. Uno studente, che poi è diventato un importante giornalista, ha alzato la mano e ha detto: «Vorrei puntualizzare che Maimonide non sta cercando di provare l’esistenza di Dio, semplicemente sta dicendo che quelle prove sono convincenti per lui, e sono convincenti anche per te, benissimo (“If it works for you, great”) ». Ho chiesto agli studenti di chiudere il libro e abbiamo passato il resto della lezione a discutere il significato della frase: “If it works for you, great”. La conversazione è arrivata al punto in cui ho capito che c’era un’enorme paura del modo in cui Maimonide o Tommaso d’Aquino usavano la ragione. «Di cosa avete paura?», ho chiesto. Uno ha detto: «Se loro hanno già provato tutto in modo incontrovertibile, allora noi non abbiamo più niente da dire, il nostro compito è esaurito». Ho risposto: «L’unico argomento finito è quello che si basa su premesse irrazionali. Cioè: se tu provi un’emozione, non posso argomentarla, spiegarla, provarla. Un sentimento è un sentimento. Ma un argomento razionale non è mai “finito”, e questo è il motivo per cui studiamo ancora Aristotele. Gli scienziati non studiano Tolomeo, ma i filosofi studiano Aristotele». Ho cercato di spiegare che nella qualità della ragione umana c’è qualcosa di infinito, qualcosa che tende a un assoluto inafferrabile, che tende continuamente verso qualcosa di oltre. Erano scioccati. Erano così convinti che ogni argomento debba avere una conclusione, ed erroneamente davano alla parola “conclusione” il suo doppio significato di compimento e di termine, che hanno avuto paura di entrare in un campo che fosse diverso dal puro relativismo.

Che cosa c’entra questo con la sua esperienza religiosa? La cultura contemporanea è dominata dall’idea che esista un’irriducibile opposizione fra religione e ragione.
L’esperienza religiosa è esattamente la chiave d’accesso alla conoscenza della realtà. Ci sono certe categorie che ho ereditato dalla mia tradizione religiosa senza le quali non riesco a spiegare ragionevolmente qualcosa di me stesso. Penso alla parola “anima”. Le mie idee religiose sono molto complicate, ma anche nel momento in cui ero più lontano dalla religione, sia come concezione sia come condotta di vita, non ho mai potuto vivere senza questa parola. Avevo bisogno di una parola che descrivesse la differenza umana, ciò che è unico nell’umano. Chiaramente non il corpo, perché tutti i nostri corpi si somigliano molto, sono sostanzialmente uguali. Deve essere qualcosa di incorporeo. “Self” sarebbe una buona parola, se non suonasse così psicologica e clinica. Mi sono reso conto che avevo bisogno della parola anima, e non mi importa quale interpretazione ne avrebbero dato gli altri. Allo stesso modo ho bisogno dell’aggettivo “spirituale”, che è il più abusato e degradato del vocabolario. In America la New Age, la televisione, Oprah Winfrey e tutto il resto hanno rovinato e ridotto questo termine, ma non ne posso fare a meno. Occorre avere il coraggio di usare queste parole nel loro significato, anche a costo di essere fraintesi.

Lei è duro, persino impietoso, quando parla dello stato degli studi umanistici in Occidente, specialmente in America. Quali rischi vede in particolare?
Assistiamo a vari attacchi alle discipline umanistiche. Uno è arrivato dalla filosofia, dal decostruzionismo di Derrida. Un altro dalla sociologia, nella forma degli studi razziali e dei “gender studies”. Questo è l’attacco più letale, perché usa un metodo inadeguato per studiare l’oggetto. La critica letteraria fatta attraverso la lente del genere o della razza è assurda, e i professori delle grandi università sono stati complici di questa distorsione. Le nuove sfide vengono dalle cosiddette “digital humanities”, l’incontro fra le possibilità tecnologiche e l’espressione umana, procedimento rischioso perché introduce una nuova idea di letteratura e arte. Si studia Proust usando il tasto search. Quante volte dice “memoria”? In quali punti? La linguistica diventerà ancora di più puro strutturalismo, riconoscimento delle strutture ricorrenti. È un approccio antifilosofico, contrario all’idea unitaria che è il cuore della ragione. Il punto è che si può studiare anche la filosofia in modo antifilosofico. E secondo questi criteri sono organizzati anche i corsi universitari.

A cosa si riferisce?
Io ho imparato molto di più dai miei maestri che dai libri, perché la conoscenza emerge sempre in un rapporto. Se perdi questa concezione tutte le forme di spersonalizzazione sono ammesse, sia per quanto riguarda i contenuti, come ho detto, ma anche nel metodo educativo. L’enorme diffusione dei corsi online in questo senso è gravissima, perché riflette il tentativo di trasformare gli studi umanistici in un campo in cui il contenuto del sapere può essere ridotto a informazione. Se sono soltanto flussi d’informazioni da elaborare, allora non c’è più bisogno del rapporto concreto con l’insegnante. Chi dice che il mezzo è neutro sta già riducendo, quindi tradendo, il sapere che s’illude di trasmettere.

È abbastanza significativo che questa riduzione del sapere a informazione si sia affermata in molti ambiti dell’esistenza. Dopo l’attentato alla maratona di Boston ha scritto, in modo critico, che gli americani hanno superato il dolore e lo shock dell’accaduto perché sono specialisti dell’“efficienza emotiva”. Cosa significa?
Quando il senso pratico prende il sopravvento sull’umano si raggiunge l’efficienza emotiva. Gli americani prendono molte delle loro convinzioni dalle teorie economiche e di management e le trapiantano in altri campi. L’idea dell’efficienza applicata alle emozioni, ai sentimenti, dovrebbe essere controversa o almeno discutibile, ma in America non lo è. Uno deve essere efficiente, superare, elaborare. Non siamo mai stati un popolo paziente, ma la tecnologia, che è il più grande assalto alla pazienza umana, ha portato questa idea alle sue estreme conseguenze. E ora cerca di eliminare l’idea di memoria.

Mi pare che tutto sommato si ricordi persino troppo...
Non è così. La gente in realtà ha paura della memoria, e tutti cercano di vivere in un eterno presente. È interessante che negli ultimi trent’anni ci sia stata, apparentemente, una grande valorizzazione della memoria, sia individuale sia collettiva. Proust aveva capito che la memoria è la mistica degli uomini secolarizzati. Da una parte c’è questo aspetto, ma dall’altra c’è la vita pratica, con la sua velocità e la sua vacuità, la sua incapacità di mettere insieme i frammenti dell’esperienza. È interessante che i pionieri del computer abbiano chiamato le macchine “memorie”. Ma il computer è l’esatto opposto della memoria, perché la memoria implica sempre la possibilità dell’oblio. È un processo editoriale della mente, del cuore, dell’immaginazione, qualcosa che ha a che fare con la sintesi, non con l’analisi. Ricordare ogni cosa non è fare memoria.