L'eternità del fango d'aprile

LETTURE - PATRICK KAVANAGH
John Waters

Può la biografia di un poeta cambiare la vita di qualcuno? A JOHN WATERS è capitato.
Con uno dei più interessanti del Novecento. Irlandese come Joyce, Yeats e Beckett, ma da loro si distingue perché ha trovato la via del ritorno alla Fonte: l’intromissione del Mistero nel mondo. Come un lampo. Che incendia le parole «in un filo magnifico di stranezza»


È strano pensare che un libro possa cambiarti la vita, ma forse a me è successo. Il libro in questione è Patrick Kavanagh, Sacred Keeper, e porta come sottotitolo «una biografia scritta da Peter Kavanagh». Il soggetto della biografia è suo fratello, il grande poeta irlandese Patrick Kavanagh, vissuto fino a poco oltre la metà del Novecento.
Peter era il fratello di Patrick, più giovane di dodici anni, ed è lui il “sacro custode” del titolo: Patrick definiva Peter «il sacro custode della mia sacra coscienza», in virtù del ruolo cruciale svolto da Peter nel compimento della sua vocazione poetica. Nonostante il sottotitolo, non si tratta realmente di una biografia, quanto di riflessioni su vari aspetti della vita e delle opere di Patrick Kavanagh.
«Quando scrivo di Patrick Kavanagh», così inizia questo libro straordinario, «scrivo da partigiano, da suo alter ego, quasi da evangelista». Il fatto che fossero fratelli, come confida alla pagina successiva, era quasi secondario: «Mi interessa soprattutto in quanto poeta». Dopo la morte di Patrick, nel 1967, Peter divenne quasi il suo fantasma nel mondo: riaffermò i suoi punti di vista, spiegò e interpretò le sue opere, difese i suoi interessi e la sua reputazione.
Per entrambi la poesia era una vocazione morale e spirituale, una questione più teologica che letteraria. Patrick Kavanagh era convinto che il dono poetico consistesse nel vedere e raccontare cose che tutti gli altri devono aspettare e sperare di vedere nell’altra vita.
I due fratelli restarono sempre molto uniti, nel deserto culturale che era Dublino nei decenni centrali del Novecento; Peter sostenne Patrick sotto il profilo spirituale, creativo, emotivo e materiale, nel corso di molti anni segnati dalla povertà e dall’indifferenza della società nei riguardi dell’arte. Peter aveva molte qualità umane, autoriali e intellettuali, ma forse i suoi doni più grandi erano la capacità di amare e l’umiltà. Disilluso circa le sue iniziali ambizioni poetiche da Patrick, che gli aveva detto (quando Peter aveva otto anni e Patrick venti) che una famiglia aveva il diritto di generare un solo poeta, da quel momento in poi Peter si dedicò a quello che, senza sentimentalismi, riconosceva come il genio superiore del fratello. Studiò la poesia per poter guidare e proteggere Patrick, la cui “ignoranza” (nel senso di semplicità) entrambi i fratelli consideravano essenziale per la preservazione del suo dono. Come critico e curatore dell’opera di Patrick, Peter adottava un approccio rigoroso e schietto, e senza dubbio affinò la sensibilità di Patrick aiutandolo a tradurre in atto il proprio dono.

Le bugie di Patrick. Molte delle poesie di Patrick parlano del luogo in cui nacque e dei suoi abitanti: Mucker, vicino alla cittadina di Inniskeen nella contea di Monaghan, una delle più settentrionali della Repubblica irlandese, al confine con la parte dell’isola controllata dalla Gran Bretagna, l’Irlanda del Nord. Per tutta la vita mantenne con la sua terra d’origine una relazione di odio-amore: spesso la accusava di aver frustrato il suo impulso poetico e limitato il suo sguardo sulla realtà, ma quasi tutte le sue poesie più belle celebrano le meraviglie di quel luogo. Questo paradosso ha tormentato Kavanagh per tutta la vita, spingendolo spesso a rinnegare le proprie opere per timore di essersi lasciato trascinare dal sentimentalismo o di aver mentito.
Quando Peter andò negli Stati Uniti per insegnare poesia, i due fratelli mantennero una corrispondenza regolare. In una lettera, Patrick si riferisce a un commento di Peter su quelle poesie ispirate dal loro villaggio natio: «È interessante che tu mi accusi di dire falsità nelle poesie su Mucker», scriveva Patrick. «Effettivamente, sono bugie. Lì non mi sono mai sentito a casa. Inniskeen è un posto terribile, ignorante, volgare».
Patrick Kavanagh si definiva «un poeta cattolico», e non era tanto un dato di fatto riguardo la sua pratica della religione, ma qualcosa di molto più profondo: la sensazione di essere chiamato a testimoniare il Mistero nel mondo. Ogni nuova stesura di una poesia veniva sottoposta alla prova del nove: conteneva «il Lampo»? Il Lampo, in realtà, era l’intromissione del Mistero, l’elemento essenziale che rendeva vera una poesia.
Molte delle sue opere sono ambientate nella selvaggia campagna di Monaghan, ma in seguito scrisse anche della città. Quel mondo creato dall’uomo, benché in modo diverso, lo seduceva altrettanto e gli bloccava la visuale del Mistero; finché, verso la fine della vita, ebbe un’epifania sulle rive del Grand Canal di Dublino, celebrato in una serie di poesie, i Canal Poems. Qui testimoniava «l’immortale nelle cose mortali», la traccia selvatica che recano i materiali estratti dall’uomo per portare a termine la sua “creazione”. Celebrava la bellezza del consueto, e la «avventura inesauribile» in cui ci si poteva imbattere su un sentiero di ghiaia. Il Grand Canal, «che versa redenzione», gli mostrava che la città non era necessariamente l’occasione per la Caduta dell’uomo, ma poteva diventare un luogo in cui il Mistero si faceva ancor più iridescente nell’opporre resistenza agli sforzi umani di sopprimerlo con il cemento e il positivismo.

L’asino di Kerr. Kavanagh si distingue dai semplici giganti della letteratura, come Joyce, Yeats e Beckett, perché aveva trovato la via del ritorno alla Fonte. Non considerava la letteratura come un mezzo per la cronistoria della condizione umana, ma come uno spiraglio da cui scrutare la quarta dimensione della realtà.
Uno dei suoi metodi più usati consisteva nel descrivere il mondo ordinario trasmettendo un’impressione di squallore, persino di bruttezza, dipingendo un’immagine del quotidiano, per poi trasformarla in qualcosa di sensazionale ed epico. Le sue poesie migliori pongono in essere una sorta di consacrazione; per esempio in Cool Water Under Bridges, quando descrive il piacere maturo di guardar scorrere la vita come il canale: «La sera è innalzata e poggiata sull’Eternità».
Consapevole dei limiti del linguaggio, scansava sempre il pericolo di analizzare «il sospiro di Dio nel parlare ordinario», e perciò le sue parole si emancipavano dalla verbosità per diventare una sorta di anti-parole, che non appartenevano né alla Terra né al Cielo.
Questo procedimento è visibile sia nelle sue opere minori sia in quelle più note: per esempio in All’uomo dietro l’erpice, che inizia con un brusco ordine impartito al contadino:
Ora lascia che si allentino le redini,
I semi oggi volano lontano -
I semi come stelle contro la nera
Eternità del fango d’aprile


In L’asino di Kerr, esordisce con una piatta affermazione dell’ordinario, rievocando dalla lontana Londra il ricordo di un tempo remoto:
Prendemmo in prestito il grosso
asino di Kerr
Per portare il burro a Dundalk


Kerr era un vicino di casa a Monaghan. La poesia sembra un tentativo di divincolarsi dai limiti del linguaggio per raggiungere un luogo in cui le parole non servono. In quattro strofe tratteggia il momento attraverso i dettagli delle briglie e delle redini, del collare e del morso.
Finché un mondo torna alla vita -
Mattina, la torbiera silenziosa,
E il dio dell’immaginazione che veglia
Tra le nebbie di Mucker


All’uomo dietro l’erpice parla del seme, «potente come il seme della conoscenza nel libro degli Ebrei». Incoraggia l’uomo con l’erpice a disdegnare la curiosità di vari soggetti, tra cui il verme e «gli uomini sulla collina di Brady», e a compiere il suo lavoro, derivante da Dio e immanente al Destino.
Dimentica anche il parere del verme,
Riguardo agli zoccoli e ai denti appuntiti dell’erpice,
Perché stai guidando i tuoi cavalli
attraverso
La nebbia dove la Genesi ha inizio


Mattino di trebbiatura inizia così:
La mattina di un settembre di mele mature
Camminavo tra i campi brinati
Con un forcone in spalla
Più per esaltazione che per uso


Prosegue narrando l’attesa e i preparativi per la trebbiatura, il lavoro in programma per quel giorno. Ritrae l’allegria che dà forza agli uomini in procinto di mettersi al lavoro: «canzonature e pettegolezzi», «col lavoro buttato là a zavorrare i voli di fantasia della mente». Nel ricordo sorvola il panorama, osserva il torrente in cui nelle estati passate catturava anguille, le luccicanti buche della torbiera, il nido di vespe su un argine, gli «steli umidi dell’erba mazzolina» che bagna gli stivali. Alla fine raggiunge l’imbocco del cortile dov’è immagazzinato il raccolto:
E mi resi conto, mentre entravo, che avevo
Attraversato campi che non erano parte di tenute terrene


Kavanagh è probabilmente intraducibile, perché le sue parole sono intimamente legate all’idioma della sua terra e al suo modo di parlare; che in realtà, come in molte altre parti dell’Irlanda, era un dialetto che comprendeva un irlandese anglicizzato, o un inglese “irlandese”. Questa fertilizzazione incrociata gli permetteva di trascendere i limiti lineari dell’inglese, ma fa morire molte sue poesie sotto il bisturi della traduzione.
Kavanagh esibiva di fronte al reale una sorta di passività, l’antitesi della passività indifferente che permea le nostre culture di oggi. Kavanagh sapeva di aver ricevuto gli occhi con cui Cristo guardava la realtà, e sapeva che la maggior parte delle persone sceglie la cecità. La sua passività era un innamorarsi, un’accettazione immediata dei doni elargiti ai suoi sensi.

Respirare a fondo. «L’esperienza, per come la vedo io, è una forma di preghiera», mi ha spiegato Peter Kavanagh: «Patrick credeva nella divinità, quindi sperava in un lampo di quella visione beatifica, quel luogo soprannaturale. Le parole sono la parte meno importante del tutto. In una poesia, le parole prendono fuoco in un filo magnifico di stranezza».
Pensare la meraviglia non è meravigliarsi, così come parlare d’amore non equivale a essere innamorati. Possiamo ripetere cose che non sappiamo. Cristo non è un concetto della teologia, ma qualcosa che accade ora. Quando lo capisce, l’uomo si lascia ossessionare e respira a fondo. Di questa verità non esiste miglior testimone di Patrick Kavanagh.