«Accetto tutto come una benedizione»

RILETTURE - FLANNERY O'CONNOR
Luca Doninelli

La realtà come atto imprevisto di Dio. E la vita dell’uomo come un’attesa di istanti decisivi. È la «struttura invisibile» della sua narrativa. La grande scrittrice del Profondo Sud, morta 50 anni fa, ha rivoluzionato la short story americana. Molti ne hanno appreso la lezione. Ma non il cuore

Morta da cinquant’anni. E l’anno prossimo sarà il novantesimo dalla nascita. Se fosse viva, Flannery O’Connor avrebbe dunque ottantanove anni. Potrebbe essere tra noi come una cara, terribile vecchietta. Potrebbe sperare ancora in quattro, cinque anni di vita. Avremmo potuto andare a farle visita, forse a farci insultare da lei. La immagino lucidissima, perfida, tranchant come sempre.
Invece una terribile malattia congenita, il lupus, la portò via a soli trentanove anni. Il mondo in cui visse per la quasi totalità della sua vita, scrivendo racconti e leggendo san Tommaso, appartiene a quello che noi identifichiamo - in omaggio al primo, grande scrittore di quell’area, William Faulkner - come il Profondo Sud.

Lavoro e legami. In quei posti la parola “società” assume un significato diverso rispetto a noi. La nostra è una cultura urbana, dove le persone vivono a stretto contatto tra loro. Viceversa, in quel mondo rurale la distanza tra individuo e individuo era (e forse è tuttora) molto maggiore, con molti animali in mezzo: bovini, suini, equini. Lì, è il lavoro (come ci racconta il cinema) a creare legami: allevatori, camionisti, agricoltori hanno interessi comuni da difendere, frequentano gli stessi autogrill, s’innamorano delle stesse cameriere. E le città sono sostituite dalle farm.
Così racconta il cinema, e prima ancora il teatro (O’ Neil, Williams, Miller...), che in questo paesaggio hanno potuto inscenare la loro tragicommedia, che ci affascina per lo spazio di cui la libertà (e spesso la follia) dell’uomo dispone per svolgere i suoi progetti.

Una strana famiglia. Anche tra scrittori del Sud esiste un legame. Diversissimi uno dall’altro, gli scrittori del Profondo Sud si richiamano l’un l’altro per il mondo che ospita i loro racconti e per i caratteri umani dei loro personaggi. Flannery non amava, per esempio, Truman Capote, ma il mondo che raccontano è simile. Non so se Flannery conoscesse Carson McCullers (leggete La ballata del caffè triste, edizioni Guanda), ma i punti in comune sono molti.
È un mondo duro e irsuto, tentato dall’orgoglio, che difficilmente accetta lezioni dal Nord urbanizzato e dalla civiltà in generale - basti leggere il primo racconto di Flannery, Il geranio - e se deve farsi ingannare preferisce gli imbonitori, i predicatori improvvisati e i venditori ambulanti di bibbie agli edificatori di grattacieli e metropolitane.
William Faulkner, Carson McCullers, Eudora Welty, Truman Capote sono solo alcuni dei nomi di questa società letteraria rarefatta, di questo mondo di gesti e sentimenti irrimediabili, di mali incurabili, troppo estremo per consentire veri e propri sodalizi intellettuali. Una strana famiglia, insomma: non troppo armonica, come la vita. Forse per questo le loro storie trucide ci attirano, e anche se il mondo che raccontano è lontano noi lo sentiamo così vicino, e ci commuove come ci commuove l’eco di un blues cantato sulle sponde del Mississippi.
Ma già lo diceva Shakespeare: che abbiamo a che fare noi con Ecuba? Ed Ecuba con noi? Eppure, al suo pianto vien voglia di unire il nostro.
Se la solitaria Flannery ha in realtà molti compagni di strada nel mondo che racconta, molti e forse più ne ha per quello che riguarda il genere letterario, la cosiddetta short story, nella quale fu maestra insuperabile. So, così dicendo, di mettere in ombra i suoi romanzi, ma è vero che fu soprattutto nell’arte del racconto che Flannery segnò a fuoco il proprio nome.
La short story americana non è semplicemente un racconto breve. Tutta la letteratura è piena di racconti brevi. In epoca moderna ricordo quelli straordinari di Poe, Maupassant, Joyce, Cechov, Singer e moltissimi altri.
Tuttavia la short story americana ha una natura tutta sua, molto particolare, che potremmo grossolanamente riassumere come segue: nella short story il “racconto” e la “storia raccontata” non coincidono. Una storia deve avere un inizio, uno sviluppo e una fine, mentre un racconto deve, semplicemente “dire” quel che ha da dire.
Se, perciò, a metà della storia il racconto ha detto tutto ciò che ha da dire, l’autore ha il diritto e il dovere di chiuderlo. Alla short story non interessa “come va a finire” la storia.

La sola realtà. Da Ernest Hemingway a John Cheever, fino a Ray Carver e Alice Munro, questo genere particolare, difficilissimo, ha dato al mondo capolavori straordinari. In questa schiera Flannery O’Connor occupa un posto centralissimo.
Io non sono un americanista e quello che sto per dire può risultare molto impreciso dal punto di vista storico, ma la mia impressione è che Flannery operi una modifica essenziale al modello di short story hemingwayana, che sarà poi ripresa da tutti i più importanti tra i suoi successori, compresi Carver (che sembra non la amasse molto, ma è difficile amare chi non riusciamo a superare) e la Munro.
Flannery ha scritto cinque o sei racconti ciascuno dei quali potrebbe figurare in un ipotetico concorso sul più bel racconto mai scritto. Cito i miei preferiti: Il geranio, Brava gente di campagna, Un brav’uomo è difficile da trovare, Non si può essere più poveri che da morti, Incontro tardivo col nemico, e infine Il negro artificiale che tocca a mio parere il vertice dell’arte innovativa di Flannery: un racconto del quale la stessa autrice sembra non sapere nulla, dove la scrittura - come in certe improvvisazioni di Miles Davis - si affida a una serie infinita di trasalimenti, di sorprese, di piccoli eventi in apparenza casuali nei quali una vicenda che potrebbe apparire banale acquista una forza definitiva.
In ogni istante la vita e la morte si giocano il passo, totalmente. Ogni istante è perciò decisivo e definitivo. Per noi questo è un modo di dire, mentre per Flannery è la realtà delle cose, la sola realtà delle cose. L’azione fondamentale dell’uomo è in sostanza un’attesa in un tempo fatto di istanti decisivi.
Flannery coltivò la sua rivoluzione letteraria alimentandola con una formidabile consapevolezza filosofica e teologica: il suo cattolicesimo non ha nulla di etico o di sentimentale, Flannery si occupa dei fondamenti della realtà, e se il mondo così come lei lo racconta ci appare strano è perché noi siamo ormai estranei a quei fondamenti, a quella struttura originaria. Tutto ciò che esiste è prodotto continuamente da un atto imprevisto di Dio: così Flannery doveva “sentire” la realtà, percepirne il vibrare. Ma per dire queste cose ci vuole un’affinità elettiva difficile da trovare, proprio come - dice Flannery - è difficile da trovare un brav’uomo (che cos’è un brav’uomo, in fondo, se non la sorpresa di una impossibile corrispondenza?)
Molti scrittori hanno appreso la sua lezione, ma a mio parere ne hanno assunto soprattutto gli aspetti tecnici - specialmente la Munro - trasformando il racconto in una specie di filo sul quale si misura soprattutto l’abilità dell’equilibrista; ma la struttura fondamentale, invisibile - che Flannery ci offre come fosse fatta d’aria, mentre è l’origine di tutto - non c’è più.

Forza scandalosa. Nonostante i molti saggi, convegni e simposi a lei dedicati, e nonostante esistano ovunque, Italia compresa, scrittori anche bravissimi che si richiamano apertamente a lei, va dato atto che la “normalizzazione” della O’Connor non c’è ancora stata. La sua forza scandalosa rimane, per i credenti come per i non credenti, e lei si rifiuta di entrare nel pantheon dei classici, dove figurano molti scrittori che non le arrivano nemmeno alla caviglia.
La ragione è duplice: da un lato, Flannery ha operato una frattura nel modo di scrivere narrativa troppo profonda perché la letteratura non ne tenga conto; dall’altro, però, questa rivoluzione (anche tecnica) ha la sua origine in una concezione totalmente, carnalmente cattolica del mondo e della storia.
Per lei Milledgeville, dove visse e morì, fu insieme Roma e Gerusalemme, lì si consumano la Passione, la Morte e la Risurrezione, proprio come avveniva per i reduci dalle crociate e dai pellegrinaggi in Terra Santa, che riprodussero nelle nostre terre (per esempio nei Sacri Monti di Varallo, Varese, Crea) la struttura dei luoghi visitati, affinché il loro santo cammino diventasse possibile a tutti, affinché lo scandalo di quegli eventi interpellasse con più forza la libertà di tutti.