Robert Adams.

ROBERT ADAMS. Lo splendore della luce

Se fosse un pittore sarebbe Cézanne. E invece ha dedicato la vita a fotografare l'Ovest americano e quella "wilderness" perduta. Perché la bellezza della forma «ci aiuta ad affrontare la nostra paura peggiore: che la nostra sofferenza non abbia senso»
Luca Fiore

«Le sono grato per le sue fotografie che mi hanno spesso salvato dalla disperazione... Nei tempi bui, uno desidera sapere se ha davvero vissuto in un mondo più puro. La forza delle sue immagini conferma che quel mondo è esistito e testimonia che è eterno, malgrado ciò che succede fuori, di fronte a noi, in questo momento». Il 26 giugno 1978 Robert Adams scrive al suo quasi omonimo Ansel, uno dei mostri sacri della fotografia americana, per riconoscergli un debito che non è solo estetico, ma soprattutto umano. Già nel 1966 aveva acquistato e appeso in casa una copia di una delle immagini più importanti del maestro: Moonrise on San Hernandez del 1941, simbolo dell’epopea dell’Ovest americano.

Adams oggi è uno dei fotografi più stimati dai fotografi e ha dedicato la sua vita e la sua opera ad aggiornare proprio quell’epopea, consegnatagli dalla generazione che lo ha preceduto. «Amo l’Ovest come luogo in cui vivere e lavorare», ha detto in un’intervista del 1994: «Il mio scopo, come fotografo, è di vederlo con tale chiarezza, e proprio dov’è, per amarlo sempre di più».

Nato nel 1937 a Orange, nel New Jersey, ma trasferitosi a 15 anni in Colorado, Adams si trova a confrontarsi con il dramma, tutto americano, della progressiva scomparsa della wilderness. Il termine in italiano è intraducibile e indica il territorio incontaminato delle pianure, dei canyon e delle foreste dove gli artisti americani ritrovano il senso del sublime. Adams si scopre a documentare la perdita dell’innocenza del paesaggio, immagine di uno squilibrio che non è solo ecologico, ma sociale ed esistenziale.

Lo sguardo di Adams è educato delle escursioni da boy scout e dalla passione paterna per il rafting, che lo porta in avventurose discese dei torrenti del Colorado o del Dinosaur National Monument. È del 1955 l’incontro con la fotografia: la sorella, con la quale frequentava le sale del museo di Denver, gli regala il catalogo di The Family of Man, la mostra curata da Edward Steichen per il Moma. Ma la sua formazione, nonostante la grande passione per le arti figurative, avviene nel campo della letteratura. Il giovane Adams legge Shakespeare, Joyce e impara a conoscere il pensiero del teologo protestante americano Reinhold Niebuhr.



Il primo libro di fotografie è del 1970 e si intitola White Churches of the Plains. Il tema della “chiesa bianca”, punto di contatto delle poetiche antitetiche di Ansel Adams e Walker Evans, viene reinterpretato unendo il rigore delle linee all’attenzione per il paesaggio. Per Giovanni Chiaramonte «rivela una visione fondata sulla dimensione analitica della forma, poeticamente vicina a Paul Cézanne, lontana da ogni enfasi retorica nell’inquadratura e nella tonalità di stampa, che privilegia il nitore equilibrato dei grigi al contrappunto dei bianchi diafani e dei neri profondi che contraddistingue vedutisti precedenti come Ansel Adams, Edward Weston, Minor White».

Questa energia anti-retorica, soprattutto il «nitore dei grigi», è ciò che più rende difficile l’approccio alla sua fotografia. Lo nota anche John Szarkowski, nell’introduzione a The New West: Landscape Along The Colorado Front Range del 1974: «Le immagini di Adams hanno una misura così civile, equilibrata e rigorosa ed escludono a tal punto l’iperbole, il gesto teatrale, l’imposizione morale e ogni effetto espressivo, che qualche osservatore potrebbe trovarle noiose... Qualcun altro invece, su cui ogni urlato eccesso della retorica convenzionale ha perso il suo potere, può trovare in queste immagini un arricchimento, una sorpresa, un insegnamento, un chiarimento, uno stimolo, e magari una speranza».

È strano che si parli di speranza riferendosi alle immagini che non sarebbe sbagliato definire “di denuncia”. Non è un caso che Adams sia uno dei dieci fotografi invitati a partecipare a una mostra del 1975, che diventerà mitica: New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape. Per la prima volta viene messo a tema l’influsso dell’uomo sul contesto naturale in cui vive. Emerge la consapevolezza che il paesaggio americano incontaminato, raccontato dai vedutisti dell’Ottocento, oggi non esiste più.

In un’immagine, scattata dalle pendici della Flagstaff Mountain in Colorado, appare, da una cornice di alberi scuri, la pianura coperta dalla città. Una trama fitta di edifici bassi e indistinti che, in modo quasi impercettibile, si dirada all’orizzonte diventando una distesa deserta. In Burning Oil Sludge, del 1973, vediamo una colonna di fumo nerissimo che si alza in diagonale sopra la terra coperta di neve, mentre sullo sfondo la catena di montagne imbiancate riposano sotto il cielo grigio. Scriveva Paolo Costantini: «Lo stupore e la capacità di provare ancora meraviglia di fronte all’irriducibilità della natura sono condizioni ritenute essenziali da Robert Adams per poter non semplicemente preservare, ma per concepire degli atteggiamenti che rendano possibile una rinnovata connessione con la terra».

Ma il libro più bello, e non è un caso che dopo vent’anni lo ripubblichi ampliato, è Summer Nights del 1985. Sono notturni di strade vuote, sentieri di campagna, margini di boschi. Nuvole ancora illuminate contro il paesaggio già entrato nel buio. Ombre di alberi proiettate sulle pareti delle villette. Una giostra, come un’astronave, pronta a decollare. In queste immagini fa la sua comparsa uno dei soggetti invisibili delle immagini di Adams: il silenzio. «Nella prateria c’è talvolta una quiete così assoluta che consente di ricominciare, di amare il futuro». In un saggio intitolato, appunto, Alla ricerca di un silenzio adeguato, scrive: «L’unico suono che cent’anni fa poteva prodursi davanti all’apparecchio fotografico era quello del vento». Di seguito racconta l’episodio capitatogli scattando la foto di una delle chiese bianche. Dopo un sopralluogo avvenuto la sera prima, il fotografo ritorna per riprendere la scena: «Mentre sistemavo la macchina fotografica, avvertii un rumore di indescrivibile intensità che aumentava a pieno volume nel giro di tre o quattro secondi. Mi voltai e vidi un aereo militare. Alla fine, tutto era quieto come prima, ma l’identità del luogo, legata a quell’assoluto silenzio dello spazio, per me era perduta».

A rendere unico Robert Adams è la qualità della riflessione che affianca alla sua opera. Lucido, profondo, difficile da categorizzare. In Italia sono stati tradotti il libro di saggi La bellezza in fotografia (Bollati Boringhieri) e la raccolta di conversazioni e interviste Lungo i fiumi (Itaca/Ultreya). Adams è uno dei pochi intellettuali che riesce a usare la parola bellezza senza contribuire all’inflazione di questo termine. «Perché la forma è bella? Perché - penso - ci aiuta ad affrontare la nostra paura peggiore, il timore che la vita non sia che caos e che la nostra sofferenza non abbia alcun senso... La bellezza dell’arte, naturalmente, non porta a nessuna dottrina definitiva...».
Ma come è percepita la bellezza da un fotografo? Qual è il canale d’accesso della fotografia alla dimensione della bellezza? «William Carlos Williams dice che i poeti scrivono per una sola ragione: dare testimonianza dello splendore (termine impiegato per definire la bellezza anche da Tommaso d’Aquino). È una parola utile specie per il fotografo, perché riguarda la luce: una luce di irresistibile intensità. La forma a cui l’arte aspira è di una luminosità assoluta, ma è anche così intensa da non poter essere guardata direttamente. Siamo quindi costretti ad intuirla dal riflesso frammentario che deposita sui nostri oggetti quotidiani: l’arte non potrà mai definire pienamente la luce».

Nella sua riflessione tornano a galla gli studi di letteratura, e nei saggi vediamo fare il loro ingresso Sofocle, Shakespeare, T.S. Eliot. Adams è in grado di parlare del proprio lavoro con onestà e chiarezza, senza tuttavia eludere i grandi temi che tocca la sua opera. Una poesia visiva impossibile da restituire a parole, almeno che ad accostarsi ad essa sia la poesia delle parole.

Rispondendo a chi gli chiede che cosa stia cercando di portare a compimento nella sua vita di fotografo, Adams risponde: «Imparare come non lamentarmi, credo. Una volta Robert Frost ha detto che il miglior compimento nella vita è imparare ad essere cordiali; una cosa che sento molto vicina, e molto difficile. Io sono come una donna che, dopo aver portato il suo bambino in spiaggia, se lo vede strappare in mare da un’ondata. Lei promette a Dio che, se gli sarà restituito, non chiederà più nulla. E l’onda successiva riporta il bambino sano e salvo sulla spiaggia. Lei corre ad abbracciarlo, ma si accorge che il bambino ha perso il cappello. “Il cappello, Signore”, chiede lei. “Dov’è finito il cappello?”».