«Quel tu che abbiamo imparato a conoscere»

L'intervento del docente di Antico Testamento all'Università San Damaso di Madrid alla presentazione del libro di Mario Elisei "Il mio amico Leopardi" (Itaca Libri) a Recanati, lo scorso 7 dicembre
Ignacio Carbajosa

1. Un giovane favoloso?

Innanzitutto vorrei ringraziare gli organizzatori di questo incontro per la gentilezza di questo invito a parlare (per seconda volta in due anni!) in questa bellissima Aula Magna del Comune di Recanati. Un invito baldanzoso nella misura in cui io non sono un esperto di Leopardi o della letteratura italiana ottocentesca ma sono uno studioso di Antico Testamento. Comunque mi sono affezionato a Leopardi ed è diventato certamente un compagno di cammino, anzi, un amico, per usare il titolo del libro che oggi presentiamo.
Vorrei cominciare questo mio intervento prendendo spunto dal film Il giovane favoloso del regista Mario Martone che tanti dei presenti avranno senza dubbio già visto. I miei complimenti al regista per la riuscita ambientazione che ci ha così avvicinato la Recanati e la Napoli dei primi decenni dell’ottocento. Purtroppo non son sicuro che ci abbia avvicinato ugualmente alla vita interiore del poeta. Vi propongo un esercizio di immaginazione per sviluppare le mie riflessioni. Siete al cinema, il film è finito, si accendono le luci e mentre scorrono ancora sul maxi schermo i titoli di coda vi vengono in mente due domande, quelle che adesso vorrei proprio affrontare.
Prima domanda: che cosa ha visto in Leopardi quel ragazzo di 13 anni, Luigi Giussani (quello che ha chiamato “amico” il poeta), per sentirsi così attirato fino al punto di imparare a memoria tutta la produzione poetica del genio di Recanati? A fatica l’immagine di quell’uomo sfortunato (trasmessa dal film) potrebbe avvicinare ai suoi Canti un ragazzo di quell’età, tanto meno se questo è un seminarista nell’Italia di metà degli anni 30.
Seconda domanda: come mai quel seminarista non è finito nel pessimismo detto “leopardiano” (questo sì, ben descritto nel film), anzi ha trascinato dietro di sé migliaia di giovani appassionati alla vita, nella cui educazione Leopardi è stato un fattore essenziale?


2. L’avventura del tu

Tento di rispondere alla prima domanda e cioè, cosa ha visto il giovane Giussani in Leopardi per farsi la promessa, già dai 13 anni, di ripetersi tutti i giorni a memoria un canto del poeta? Innanzitutto bisogna dire che quel seminarista ha visto nei Canti qualcosa che c’è in essi e che, purtroppo, quel film non è stato in grado di mostrare con energia. Mi riferisco alla scoperta del tu, così viva in tanti canti del primogenito del Conte Leopardi. Non credo che nella vita ci sia una avventura più appassionante della scoperta del tu. Ebbene, in questo, il poeta di Recanati è stato un maestro per don Giussani. Anche se sembra paradossale, possiamo dire che Leopardi ha introdotto don Giussani nell’avventura, sempre drammatica, della scoperta del tu. Scoperta che nasce con lo svegliarsi della coscienza già nella prima età:

Già sul novello aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo io mi pensai
(Alla sua donna)

Quello che scopriamo (quello che ha scoperto Giussani) leggendo i Canti di Leopardi non è una generica esperienza drammatica e dolorosa dell’umano, non è soltanto il sorgere di tanti “perché” indirizzati a una natura che “non rende quello che promette” (cfr. A Silvia). In Leopardi scopriamo il genio che, meglio di noi, è stato capace di esprimere l’esperienza del sorgere, nell’alba dell’impatto adulto con le cose, un dialogo con un tu reale e allo stesso tempo misterioso (altrimenti non sarebbe un tu ma una proiezione di quello che penso o sento!).
Quel “novello aprir di mia giornata” di leopardiana memoria sono stati i 13 anni del seminarista di Desio. È in quella data che comincia l’avventura della scoperta del tu. Una sorte di vita nuova, questa volta di dantesca memoria:

In quella parte del libro de la mia memoria
dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere,
si trova una rubrica la quale dice: INCIPIT VITA NOVA
(Dante Alighieri, Vita Nuova, cap. I)

Come per Dante nell’incontro con Beatrice, è stata l’esperienza del primo amore quella che ha introdotto Leopardi nel mistero di quel tu, “viatrice in questo arido suolo”:

Tornami a mente il dì che la battaglia
D'amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!

Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
Io mirava colei ch'a questo core
Primiera il varco ed innocente aprissi.
(Il primo amore)

La prima apertura del “varco del core”, il sorgere della nostra umanità, coincide con l’imbattersi con una presenza che non sono io, che mi chiama (mi attira!) attraverso la bellezza di una donna o il semplice imporsi delle cose (“il riso della natura nei campi”, che direbbe Leopardi, cfr. Alla sua donna). Sono i Canti, testardi, a parlarci di questa scoperta del tu nel giovane Leopardi. È a questo tu (che ha tanti nomi nell’avventura umana del poeta: “Aspasia”, “Silvia”, “Nerina”, “pensiero dominante”, “cara beltà”, “luna”, “infinito”), che Leopardi s’indirizza, in un dialogo serrato, sincero, cercando, piuttosto desiderando, di vedere i suoi tratti. Quel tu, la ricerca del suo volto, diventa per Leopardi un “pensiero dominante”:

Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lùgubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni
(Il pensiero dominante)

Il poeta non è più solo, o meglio, da quando il varco del suo “core” è stato aperto per la prima volta da quella presenza invadente tutta la sua vita è nostalgia, e cioè solitudine alla ricerca di questa compagnia essenziale, di quel tu che riappare più volte nei Canti:

Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
Che tu quivi prendesti a far dimora!
(Il pensiero dominante)

Ma il realismo di Leopardi, non certo portato a “spiritualizzare” facilmente le cose che ha davanti o a ipostatizzare le idee, arriva qui al suo punto algido. È la sua lealtà con l’esperienza della bellezza, il suo realismo con quel tu che lo attira, che lo fa parlare del divino, dell’intuizione del divino che è l'unico che può toccare il cuore umano:

Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà. Simile effetto
Fan la bellezza e i musicali accordi,
Ch'alto mistero d'ignorati Elisi
Paion sovente rivelar
(Aspasia)

Da allora il dialogo non è più con Aspasia, Nerina o Silvia ma con quel tu sorpreso nella contemplazione di quelle donne. Cosa è la vita? “Un ragionare con te, cara beltà”, direbbe Leopardi, “a partire della bellezza delle cose”:

Quanto più torno
A riveder colei
Della qual teco ragionando io vivo,
Cresce quel gran diletto,
Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.
Angelica beltade!
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
Quasi una finta imago
Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
D'ogni altra leggiadria,
Sola vera beltà parmi che sia
(Il pensiero dominante)


In questo modo Leopardi arriva nei suoi Canti alla percezione della realtà come segno, nella quale, è giusto riconoscere, non resterà a lungo, precipitando sempre più giù. Comunque, mentre resta leale in quella cima, tutta la realtà che lo attira è riconosciuta come segno del “ultimo obbietto” del suo desiderio. È tutto nei suoi Canti:


Da che ti vidi pria,
Di qual mia seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei
La tua sovrana imago
Quante volte mancò? Bella qual sogno,
Angelica sembianza,
Nella terrena stanza,
Nell'alte vie dell'universo intero,
Che chiedo io mai, che spero
Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?
(Il pensiero dominante)

Serva questa guida alla lettura dei Canti (non abbiamo fatto altro che far parlare Leopardi) per svelare quello che il giovane Giussani apprese dal poeta nel suo particolare “novello aprir della giornata”.


3. “Te la sorte avara, ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?”: Il compimento storico della profezia

Affrontiamo, dunque, la seconda domanda. Come mai il seminarista di Desio, che addirittura affrontava da solo la lettura dei Canti, non si vide precipitare nel pessimismo dalla mano dell’autore dello Zibaldone?
In realtà questa pagina della vita di don Giussani è paradigmatica del rapporto tra l’attesa religiosa della storia dell’umanità e l’avvenimento storico di Cristo, oggetto ultimo di ogni desiderio. Paradossalmente lo stesso Leopardi si fa portavoce di quell’umanità ferita prima di Cristo… mille ottocento anni dopo Cristo. Diventa “profeta” come amava chiamarlo don Giussani(1), quando intuisce, da lontano, che quella “informe” cara beltà, “che amore lunge mi inspiri, o nascondendo il viso”, la “sorte avara ch’a noi t’asconde agli avvenir prepara” (cf. Alla sua donna).
Il pessimismo in cui precipitò Leopardi è frutto dell’impazienza plurisecolare dell’uomo che non vede il volto del tu da cui tutto dipende e non riesce a rimanere con le mani aperte aspettando un segno dal cielo ma decade in idolatria o disperazione.
Don Giussani ha intravisto per un po’ quell’abisso della disperazione in quel “mese di maggio perso nella adorazione di Leopardi”(2). Per tre anni, dai tredici a sedici anni, ha vissuto con quella ferita leopardiana, la ferita della propria umanità, che non trovava esauriente accoglienza nella sua esperienza cristiana in seminario. Era l’insinuarsi di un dualismo di cui lo stesso Giussani si rese conto poco più tardi(3). Fin che qualcosa accadde. L’avvenimento di Cristo. Con le stesse caratteristiche del primo avvenimento, duemila anni fa. È quello che don Giussani chiama “il bel giorno”, che per lui rimarrà per sempre legato alla figura di Gaetano Corti (suo insegnante di religione) mentre spiega il Prologo del Vangelo di Giovanni, e alla figura di Leopardi, profeta del desiderio. Finalmente attesa e annunzio di Cristo si incontravano. Vale la pena dare voce allo stesso don Giussani per capire cosa accadde quel giorno:

“L'insegnante di religione - era il primo anno che si faceva scuola di religione in seminario -, don Gaetano Corti, ha spiegato la prima pagina del vangelo di san Giovanni: «Il Verbo si è fatto carne vuol dire che la bellezza si è fatta carne, vuol dire che il vero si è fatto carne, vuol dire che la giustizia si è fatta carne, vuol dire che la bontà si è fatta carne». Un uomo era tutte queste cose qui. Quid est veritas? Vir qui adest.
Poi, lo stesso giorno, ripeti (in terza ginnasio avevo studiato a memoria tutto Leopardi, e ripetevo sempre, tutti i giorni, due o tre poesie per tenermi allenato), quel giorno lì ripeti l'inno Alla sua donna e t'accorgi che quella poesia ti ha fatto pensare esattamente le stesse cose che il professore aveva detto della prima pagina di san Giovanni. Il concetto di Donna (col D maiuscolo) in cui s'affissa l'occhio di Leopardi in quella poesia non è nient'altro che il Verbo fatto carne di san Giovanni. «Fin da quando ero piccolo io credevo di vedere per le strade di questo mondo, non una delle donne di cui son stato innamorato (…), fin da piccolo credevo di trovar per le strade di questo mondo non una donna, o l'altra, o l'altra, o l'altra..., ma la donna che fosse la Bellezza col B maiuscolo»”(4).

Ecco la riconciliazione tra l’umanità desiderosa e quel tu che l’attira nel reale, questa volta fatto carne, con un volto umano e divino allo stesso tempo. Quello che Leopardi sospirava vedere, Giussani l’incontrò per le strade di questo modo, in “sensibil forma” (cfr. Alla sua donna). Da allora Leopardi diventò amico, anzi, compagnia per educare un popolo, per aprire il “varco del core” a quel tu il cui nome abbiamo finalmente conosciuto.


NOTE

(1) Cfr. L. Giussani, Le mie letture, Bur, Milano 1996, p. 30.
(2) L. Giussani, L’attrattiva Gesù, Bur, Milano 1999, p. 188. “Perché i lamenti di Leopardi in terza ginnasio li sentivo veri, non positivi; anzi, aumentavano la mia malinconia e io eludevo tutto il resto perché pensavo a Leopardi” (L. Giussani, «Tu» (o dell’amicizia), Bur, Milano 1997, p. 36).
(3) Cfr. I. Carbajosa, “Il desiderio di bellezza e la Bellezza rivelata. Leopardi, «compagno di cammino» di Luigi Giussani”, en M. Elisei, Il mio amico Leopardi, Itaca, Castel Bolognese 2014, p. 153.
(4) L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, Bur, Milano 1996, p. 134-135.