La copertina del libro.

L'oro della Città Santa

La nuova opera di Giovanni Chiaramonte dedicata a Gerusalemme. Alla scoperta dei luoghi, per rivelarne l'identità e il destino. Lo sguardo che si posa sui gesti e i simboli. E quella nota gialla che segna le immagini, come lo sfondo di un'icona bizantina
Luca Fiore

È un libro importante questo Jerusalem_Figure della promessa di Giovanni Chiaramonte. La prima ragione è che è edito dalla Libreria editrice vaticana che non ha, nel suo catalogo, una collana dedicata alla fotografia d’autore. Non è la prima volta che il fotografo milanese collabora con l’editore del Papa: lo aveva fatto nel 2000 curando un libro di immagini del Giubileo, e non è neppure sconosciuto nelle stanze vaticane, se nel 2009 è stato tra i pochi fotografi invitati allo storico incontro tra Benedetto XVI e gli artisti nella Cappella Sistina.

Il rapporto tra la Chiesa cattolica e la fotografia, intesa come forma d’arte, è un rapporto difficoltoso come lo è con il resto dell’arte contemporanea (Josef Koudelka ha esposto al Padiglione della Santa Sede all’ultima Biennale di Venezia, ma si tratta di un episodio). La difficoltà è acuita, forse, dal fatto che non si sia mai trovata una strada convincente per inserire la fotografia nell’ambito dell’arte liturgica. Rarissima eccezione è quella proprio di Chiaramonte, che è stato tra gli artisti che nel 2011 hanno illustrato il nuovo Evangeliario ambrosiano.

La seconda ragione è che le opere contenute nel libro (esposte in questi giorni a Roma alla Libreria internazionale Paolo VI, in via Propaganda Fide 4, fino al 6 gennaio) sono state al centro di una mostra realizzata a settembre all’Ikona gallery di Živa Kraus, in occasione dei festeggiamenti dei 500 anni del Ghetto di Venezia. Che un’istituzione ebraica chiami un artista come Chiaramonte, che non fa mistero di essere cattolico, per raccontare Gerusalemme, dice molto del valore di questa serie di immagini.

La terza ragione che lo rende importante è che si tratta di un bellissimo libro di fotografia. Chi conosce la sua opera sa che già dall’inizio della sua carriera, nei primi anni Settanta, ma sempre più consapevolmente, Chiaramonte ha sempre seguito la linea tematica che unisce luogo e identità (è stato il primo in Italia ad usare questo binomio anche come categoria critica). La fotografia di Chiaramonte usa un linguaggio colto e raffinato. Posa lo sguardo sui luoghi, ne legge le forme create dalla luce, ne sorprende i particolari: segni che diventano simboli. La presenza umana è sempre discreta, non ruba mai la scena, eppure diventa spesso essenziale per leggere il messaggio che, di volta in volta, si imprime sulla pellicola.

Chiaramonte ha un modo particolare per raccontare le città. Si muove sempre attorno un centro di interesse, di solito il luogo più famoso. Vi si avvicina gradualmente e le immagini contengono una sorta di attrazione magnetica verso quel “cuore simbolico”. Quest’ultimo, però, raramente viene fotografato in modo diretto. A Berlino era il Muro, a Milano il Duomo, a Venezia San Marco… A Gerusalemme i punti topici sono tre: la cupola d’oro della moschea di Al-Aqsa, il Muro del Pianto e la Basilica del Santo Sepolcro.

Un aquilone, un ceppo di un albero tagliato, un cieco che attraversa la strada, un cavallo bianco che bruca, un fascio di luce, una sedia vuota, una candela accesa, un uccello che attraversa il cielo. E il colore delle pietre chiare, che dà la nota cromatica a tutta la città. Qui, come in nessun luogo forse, la linea luogo-identità prosegue verso una terza parola: destino. Le pietre, la luce e i gesti che esistono e che accadono posseggono una dimensione che trascende le coordinate geografiche e che investe il mondo e la storia. Chiaramonte sa far emergere il destino misterioso di Gerusalemme: non attraverso visioni monumentali e retoriche, ma sguardi quotidiani dove spesso a riempire lo spazio è il silenzio. Quella nota gialla che, per scelta, l’artista lascia emergere dalle fotografie, è la stessa luce d’oro che riempie lo spazio alle spalle dei protagonisti delle icone bizantine. È una costante dell’opera degli ultimi venticinque anni: vale per i paesaggi siciliani o le visioni di Venezia e Milano. Ma Chiaramonte sa che quell’oro è una nota innanzitutto mediorientale, e che trova le sue radici proprio qui, nella Città Santa.

Il libro è completato, come avviene ormai di consuetudine, da una serie di “didascalie poetiche” di Umberto Fiori. Sono suggerimenti allo sguardo del lettore. Sono però poste in fondo al libro e fanno riemergere dalla memoria quello che si è visto pochi istanti prima. Sfreccia un nero di ali, se ne va via / tra due cipressi piegati. Gli stessi / che spinsero fino al cielo / il carro di Elia.