Hart Crane

Il poeta che scrisse l'ode al ponte

Forse non ne avrete mai sentito parlare. Eppure il guru americano della critica, Harold Bloom, lo equipara a Eliot. Si chiamava Hart Crane. Ebbe una vita breve e da bohémien. Ma nei suoi versi «la ricerca lacerante è diventata preghiera»
Mattia Ferraresi

Il grande critico Harold Bloom ha letto per la prima volta le poesie di Hart Crane quando era soltanto un bambino del Bronx. Era il giorno del suo decimo compleanno, l’11 luglio 1940. Dopo due anni di incessanti rinnovi del prestito del volume nella biblioteca del quartiere, le sue sorelle gli hanno regalato una raccolta del poeta americano morto nel 1932. È stato il primo libro che abbia mai posseduto, e alle soglie degli 86 anni è ancora sul suo scaffale.
Il professore di Yale ha raccontato molte volte le circostanze del suo incontro giovanile con l’opera di Crane, e anche nel suo ultimo libro (Il canone americano. Lo spirito creativo e la grande letteratura, da poco pubblicato in Italia da Rizzoli), sullo spirito letterario che percuote l’anima del Nuovo Mondo, compare per l’ennesima volta l’aneddoto giovanile, con tutti i dettagli noti: il compleanno, la biblioteca, il regalo. È il segno di una preferenza, di una intima devozione per un poeta conosciuto dalla comunità intellettuale e tuttavia rimasto largamente oscuro al grande pubblico. In Italia è un’impresa reperire le sue opere, tradotte a intermittenza nei decenni grazie a sforzi eroici ed episodici (l'ultimo è quello a cura di Giacomo Trapani per Mauro Pagliai Editore).
Bloom ha scritto di aver imparato a memoria i versi di Crane «molto prima di averli capiti» e attribuisce al poeta nato in Ohio e sbocciato poeticamente a New York «doni della stessa magnitudine di Whitman, Dickinson, Eliot, Frost e Stevens». Sulla base degli ultimi lavori, in particolare la poesia La torre spezzata, Crane «avrebbe potuto sorpassare in eminenza qualunque altra cosa nella tradizione della nostra nazione», se soltanto non si fosse gettato dal parapetto di una nave che solcava il Golfo del Messico qualche mese prima del suo trentatreesimo compleanno.

Il dio americano. Impressa nel cuore di Bloom c’è la poesia di questo maledetto, nato nella periferia di Cleveland, figlio di una coppia ricca e infelice che aveva fatto fortuna commercializzando caramelle; un giovane reso vecchio anzitempo dal vino, dalle scorribande, dagli amori non corrisposti, dai tentativi di correggere le pulsioni omosessuali, dall’inquietudine del vivere. Il suo nome di battesimo era Harold, ma si faceva chiamare con il cognome della madre da nubile, la figura a cui era rimasto legato dopo il penoso divorzio dei genitori nel 1917. Hart è anche omofono di “heart”, il cuore.
Crane anelava a creare, come diceva lui, una «sintesi mistica dell’America» e ha dato origine a una poetica notturna che Bloom definisce «orfica», in dialogo tanto con la Terra desolata di Eliot quanto con il Canto di me stesso di Walt Whitman, il più orfico dei poeti americani.
L’immaginario di Crane è affollato di simboli tratti dal panorama newyorchese: c’è lo scavalcare del ponte, la torre che si spezza, la metropolitana infernale, veicoli di una ricerca di significato che domina ogni verso. Ma in questa esplorazione urbana ci si avventura anche un passo oltre.
Nella raccolta Il ponte, un’epica ode al ponte di Brooklyn, scrive: «Il bacio della nostra agonia Tu raccogli / O mano di fuoco / Raccogli». «Chi o cosa è questo “tu” ne Il ponte?», si domanda Bloom. «Il particolare tipo di trascendenza negativa di Hart Crane rappresenta ciò che potrebbe essere chiamata la Religione Americana, una gnosi endemica degli Stati Uniti in cui, per almeno due secoli, la religione non è stata l’oppio ma la poesia dei popoli», il culto dell'indipendenza dell’individuo. Il dio del Nuovo Mondo è fatto a immagine e somiglianza dell’uomo.
Eppure anche questa presenza divina tutta sbilanciata sul versante umano, simboleggiata dal ponte che collega l’uomo a un infinito presentito e desiderato, si rivela insufficiente per Crane: «Il visionario de Il ponte aveva bisogno di più di questo, ma non ha mai trovato ciò che cercava», scrive Bloom. Il portatore di questo “mistico anelito” che lo affratella «a un san Giovanni della Croce, nella sensibilità se non nella fede», nella stanza che chiude il proemio a Il ponte arriva ad implorare il ponte di abbassarsi, per colmare l’incolmabile distanza: «Oh insonne come il fiume sottostante / tu che scavalchi con un arco il mare / e la zolla sognante delle praterie, slànciati / verso le nostre bassezze, e qualche volta scendi / e con la tua curvatura presta un mito a Dio».
Nella richiesta di slanciarsi verso le «nostre bassezze» è «implicito il senso dell’incarnazione», spiega il poeta Paul Mariani, professore di Letteratura al Boston College e autore della più importante biografia di Crane, La torre spezzata. La domanda aperta, sconfinata, si fa dialogo con un volto di cui si chiariscono i tratti mano a mano che il poeta innalza la sua preghiera. «Il ponte di cui parla Crane è chiaramente un simbolo divino, e il poeta usa l’espressione “mito” nel senso gnostico, ma quello che segretamente cerca è il logos, la parola che si fa carne, il ponte che si piega verso il basso», continua Mariani, che non teme di identificare il poeta che per decenni lo ha ossessionato come «un mistico, almeno in un certo senso».
Ci sono almeno due livelli di lettura della vicenda di un autore che per generazioni è stato ridotto a oggetto da psicanalizzare: «In superficie c’è il bohémien, il maledetto, un uomo apertamente omosessuale, esagerato, che beve molto e non fa mistero, anzi si vanta, della sua vita dominata dagli istinti. Sotto questa superficie, però, c’è il cercatore, l’uomo che anela a un senso. Crane è un personaggio agostiniano. Si chiede: cosa potrà soddisfarmi? La bottiglia? Il sesso? La fama? La risposta non arriva mai, nulla lo soddisfa pienamente, e questo continuo, lacerante cercare a un certo punto prende la forma della preghiera. È per questo, io credo, che la sua poesia è difficile: non è solo la complessità formale, è che bisogna convivere con le sue parole, esserne esposti, ripeterle».
Per arrivare all’implorazione al ponte di Brooklyn, Crane intesse già nel proemio una velata serie di accostamenti: le luci delle automobili «imperlano» il ponte, dove il verbo scelto, to bead, ricorda un altro bead, questa volta sostantivo, che è la corona del rosario cattolico, e le stelle emettono sospiri che sono non a caso «immacolati», mentre braccia invisibili sorreggono la notte come in una Pietà.

La cartolina a Peggy. «L’intera opera di Crane è segnata da figure femminili idealizzate», dice Mariani: «Dapprima c’è l’immagine classica di Elena di Troia, poi interviene quella di Pocahontas, che è la rappresentazione del Nuovo Mondo». «A te che una volta hai voltato le spalle, Elena, che conosci / il tocco di mani segnate, troppo spesso impegnate con l’acciaio e la terra», scrive della sposa di Paride. Oppure della bella pellerossa: «Il tuo bruno grembo è un maggio di verginità, oh Principessa, / un focato orgoglio celavano i tuoi occhi e i tuoi fianchi di sposa». Ma, spiega Mariani, «la donna che domina è Maria, i suoi riferimenti sono sparsi ovunque».
Alcuni anni fa, molto dopo l’uscita di una biografia che, tra l’altro, ha ispirato anche un film di James Franco, Mariani ha scoperto una cartolina della Vergine di Guadalupe che Crane aveva inviato, proprio alla fine della sua breve vita, alla pittrice Peggy Cowley, l’unica donna con cui ha avuto una relazione sentimentale: «Le scrive che è andato diverse volte alla messa di mezzanotte nel santuario messicano, ed è rimasto colpito dalla devozione popolare che regna in quel luogo. Trovo molto significativo che esprima queste considerazioni a un’altra figura femminile della sua vita», dice Mariani. Dopo una vita turbolenta, segnata da diversi matrimoni, fughe, brucianti passioni civili e politiche, la Cowley finirà per convertirsi al cattolicesimo, forse afferrando ciò che il suo amato e derelitto Crane aveva misteriosamente presentito, secondo una vocazione che, più che orfica, era profetica.