Édouard Manet, "Il pifferaio" (part.), 1866

Manet, il rivoluzionario

Una mostra a Milano celebra le opere del grande artista. A cominciare dal quadro che dà inizio all’arte moderna. Perché sposta il fuoco dal soggetto all’avvenimento che accade quando si dipinge... (da Tracce, marzo 2017)
Giuseppe Frangi

Se si dovesse fissare una data per l’inizio dell’arte moderna, si potrebbe con ragionevoli motivi prendere il 1866. In quell’anno Édouard Manet, un artista parigino reduce da un clamoroso scandalo per aver presentato nel 1864, al consueto appuntamento del Salon nella capitale francese, il nudo dell’Olympia, si era fatto avanti con due proposte pensate come concilianti: tra queste c’era il ritratto a figura intera di un ragazzino con la divisa della guardia imperiale nell’intento di suonare un piffero. Un soggetto innocente, che sarebbe dovuto risultare del tutto accettabile al pubblico borghese del Salon. Eppure anche davanti a quel quadro si rinnovò una violentissima levata di scudi, al punto che venne rifiutato dalla commissione chiamata a decidere chi dovesse esserci e chi no alla rassegna di quell’anno.

Oggi a guardare Le Fifre (questo il titolo originale del quadro, che è il manifesto della mostra milanese dedicata a Manet allestita a Palazzo Reale dall’8 marzo al 2 luglio) ci si chiede dove fosse lo scandalo. Se davanti all’Olympia si poteva supporre che il nudo risultasse sconveniente agli occhi dei benpensanti parigini (ma di quanti nudi femminili è piena la storia della pittura...), il ragazzino in divisa che suona il piffero non si capisce quale problema ponesse. Evidentemente lo scandalo non era costituito dal soggetto, ma da qualcos’altro. E questo “qualcos’altro” riguarda il dna del dipinto. Con Manet, infatti, si compie un vertiginoso salto evolutivo, per cui si può ben dire che da questo punto sia cominciata l’arte moderna.
Per capire bisogna osservare con attenzione da dentro questo capolavoro, lasciandosi guidare dal geniale sguardo di Michel Foucault. Il grande filosofo tenne, infatti, una serie di memorabili lezioni su Manet, raccolte poi in un libro (tradotto anche in italiano dall’editrice Abscondita). Foucault aveva notato innanzitutto un elemento molto elementare: Manet ha fatto sparire lo sfondo. Scrive Foucault: «Non vi è nessuno spazio dietro al pifferaio; non soltanto non c’è spazio dietro di lui, ma in un certo senso sembra non essere situato in nessun luogo». I piedi del ragazzo, infatti, non appoggiano su nulla, perché lo sfondo è un continuum neutro e tendenzialmente tutto verticale. Lo sfondo e la superficie della tela coincidono.

Édouard Manet

Foucault poi ha notato un altro fattore che dovette risultare alquanto destabilizzante: la luce non viene né da destra né da sinistra, ma è rigorosamente frontale. In particolare la luce non viene da una fonte interna al dipinto, visualizzata esplicitamente o anche solo suggerita, ma viene da fuori il quadro; magari dalla finestra aperta nella stanza in cui il quadro stesso è stato appeso.
Manet, insomma, dopo secoli di grande pittura che ci aveva abituato all’illusione di uno spazio creato dentro la tela, ci dice che quella soluzione aveva esaurito tutte le sue potenzialità. Tutta la pittura che si vedeva al Salon rappresentava l’epilogo un po’ patetico di una grande storia (e con l’occhio di oggi la cosa risulta di un’evidenza lapalissiana). Per dare un’altra chance, un’altra ragion d’essere alla pittura bisognava tagliare dunque i ponti. E il passaggio non riguardava tanto i soggetti, come la vicenda del Pifferaio ben dimostrava. Foucault scrisse che con Manet era nato il “quadro-oggetto”: un quadro in cui non è più preminente il contenuto (quindi il soggetto), ma l’avvenimento che accade nel dipingerlo. Il quadro, insomma, è legittimato non da ciò che rappresenta, ma dall’esperienza densa, profonda che lo ha fatto essere.

In quel 1866 la storia della pittura si era messa dunque alle spalle la terza dimensione: si trattò di un’evidenza che aveva scombussolato la commissione e che venne, perciò, “risparmiata” al pubblico del Salon di quell’anno, respingendo Il pifferaio di Manet. Quel quadro scappava via da tutte le categorie e conteneva qualcosa di “inaudito”. A capire la novità di Manet furono in pochi. Tra loro Émile Zola, che di fronte al quadro respinto dalla commissione disse: «Non credo che sia possibile ottenere un effetto più potente con mezzi più semplici». Due anni dopo, Manet avrebbe realizzato un ritratto di Zola, esposto alla mostra di Milano, che è una bandiera della “nuova pittura”: lo scrittore è messo di tre quarti, ma l’impostazione è volutamente e violentemente “piatta”, schiacciata. Sul tavolo e sul muro sono messi in evidenza i nuovi punti fermi: le stampe giapponesi, un’incisione tratta da un’opera di Velázquez, una riproduzione dell’Olympia e la copertina del libro battagliero che Zola aveva appena scritto sull’amico pittore.
Con Manet la pittura vive una sorta di re-inizio, che si avvale però di soluzioni sempre molto semplici. Ad esempio, nel percorso della mostra ci si imbatte in un quadro storico, appartenente all’ultima stagione dell’artista (che morì a 51 anni nel 1883). È una marina dipinta nel 1880 che narra la leggendaria fuga di Henri Rochefort, intellettuale liberale, tra i protagonisti della Comune parigina, dalla prigione su un’isola sperduta in mezzo all’Oceano in Nuova Caledonia. La tela è tutta occupata dal mare; al centro si vede l’imbarcazione dei fuggitivi: ma il quadro, di fatto, è proiettato in una dimensione di verticalità, in grado di ridare una tensione drammatica che nessuna veduta “in profondità” sarebbe mai riuscita a restituire. Quasi che l’evento della fuga si fosse tradotto pari pari in evento pittorico. Il soggetto diventa quindi per Manet uno stimolo per essere ancora più nuovo e audace rispetto al proprio destino di pittore.

Per capire completamente la portata della rivoluzione manettiana in mostra c’è un altro capolavoro. Si intitola Le Balcon (1868); si vedono tre personaggi, due donne e un uomo, affacciati ad un balcone assolato, intenti probabilmente ad osservare qualche sfilata. Come aveva colto ancora una volta Michel Foucault, le tre figure sono giocate sul contrasto del bianco abbagliante del vestito delle donne e del nero dell’uomo, il quale esce dal “buco” buio della stanza: un buio innaturale, perché sembra impermeabile alla luce forte, da mezzogiorno estivo, che pur bombarda frontalmente la tela. Foucault avanza l’idea che, dipingendo Le Balcon, Manet abbia lavorato su uno dei grandi motivi della storia della pittura, quello della risurrezione di Lazzaro. Il buio della stanza sarebbe quello del sepolcro e le due donne sarebbero le sorelle, testimoni luminose del ritorno alla vita. Evidentemente non era nelle intenzioni di Manet quello di rappresentare un simile soggetto. Quel soggetto “accade” o “riaccade” per una dinamica tutta interna all’atto di dipingere. In un certo senso si materializza come “esperienza”, che è assai più di una rappresentazione. Si tratta di una dinamica libera e gratuita grazie alla quale i grandi motivi che stanno al fondo della coscienza umana (ad esempio il tema della libertà o quello della morte) tornano a galla con modalità del tutto impreviste. E in certi casi, come Manet dimostra, con modalità di magnifica bellezza e “inaudite”.

Con Manet la storia della pittura riparte e spalanca orizzonti spaesanti tanto sono vasti (pensiamo, ad esempio, alla pittura astratta). La stessa pittura religiosa, “liberata” dalle timidezze di un’iconografia ormai esausta e ridotta spesso ai limiti dell’oleografia, ha potuto, dopo di allora, sperimentare un’infinità di strade e linguaggi nuovi che le hanno restituito vita. Per questo, quando ci troveremo davanti anche ad una semplice e banale natura morta dipinta da Manet, come il piccolo, stupefacente Asparago (1880), dobbiamo avere la consapevolezza che siamo di fronte ad un germoglio, di commovente bellezza, di tutta l’arte che verrà.