Un altorilievo del monumento ad Alessandro Manzoni a Lecco: Padre Cristoforo mostra a Renzo don Rodrigo morente

Milano e le conseguenze del perdono

Rispondere alle dinamiche distruttive con atti di pura gratuità può cambiare una città. Parte da questa intuizione (e da Manzoni) la stagione del Centro culturale di Milano. Il 6 ottobre ne parlano Ferruccio De Bortoli, don Claudio Burgio e Stefano Boeri
Luca Doninelli

Venerdì 6 ottobre si apre la stagione del Centro Culturale di Milano, in collaborazione con il Teatro de “Gli Incamminati”, con una lettura del celebre “perdono di Renzo” tratto dal cap. XXXV de I Promessi Sposi. E il perdono sarà il grande tema, non solo religioso e morale ma anche laico e civile, che gli ospiti saranno chiamati ad affrontare. Saranno Ferruccio De Bortoli – ex direttore del Corriere della Sera -, don Claudio Burgio – fondatore della comunità Kairos e cappellano dell'Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” - e Stefano Boeri, archistar (o archistreet, come preferisce farsi chiamare) di fama mondiale.

L’idea è semplice. Nel 2017 Milano è stata visitata dal Papa, che per parlare a tutta la città ha scelto due luoghi emblematici: le case popolari di via Salomone, note fino a poco tempo fa per diversi episodi di violenza, e il carcere di San Vittore. Ha insomma indicato il disagio, i margini come vero test per un giudizio complessivo sulla città e sul suo grado di civiltà. In breve, una città la si giudica e comprende a partire dai suoi poveri: loro sono la chiave di lettura, l’unità di misura del livello di civiltà.

Milano è una città speciale per molte ragioni. La sua tradizione culturale, che integra un cattolicesimo con forte vocazione sociale e un illuminismo non giacobino, l’ha sempre proiettata – a differenza di molte città italiane – sul futuro, sui progetti, su quel che “resta da fare” più che sul già fatto, sulle vestigia e le memorie del glorioso passato.

E Milano ha un libro che è il suo specchio, il suo ritratto profondo: I Promessi Sposi. Un romanzo milanese ben al di là dei luoghi in cui si svolge (che è comunque territorio milanese), perché profondamente milanese, ossia cristiano e illuminista, è l’occhio di chi lo scrive. E I Promessi Sposi sono per antonomasia il romanzo degli umili.

Umili, ossia legati alla terra, gente con i piedi per terra, a cominciare dai nomi: Tramaglino, Mondella, nomi legati al lavoro, nomi di gente che non se ne sta con le mani in mano,” nomi di gente che sa che un uomo conosce sé stesso solo attraverso l’impegno concreto con la vita e con le imprevedibili domande che essa ci pone, istante dopo istante. Agli umili resta una grande ricchezza, quella dignità che rischia di smarrirsi nel caos delle nostre città, nelle case popolari, in un carcere, e così via: così che gli “umili” diventano “i miserabili, come li chiama Victor Hugo.

Tra queste due parole si colloca il confine della dignità di ciascuno e della responsabilità sociale e civile.
Ora, come tutti sanno c’è un momento decisivo nella trama del Romanzo: quello del faccia-a-faccia tra Renzo e don Rodrigo. Si tratta di un vero duello alla pistola. Don Rodrigo sta morendo di peste, Renzo è guarito. Tra loro c’è padre Cristoforo, ossia l’angelo, la Chiesa: padre Cristoforo non può sostituirsi alla libertà di Renzo, ma gli ricorda qual è la posta in gioco. Renzo è disperato, crede che Lucia sia morta, e adesso si trova davanti a colui che è l’origine di tutti i loro mali, una specie di demonio, di satana. Qui ci sarebbe da meditare su ogni parola, su ogni momento della scena. Se Renzo perdona, ha vinto lui; se non perdona, ha vinto don Rodrigo, o meglio, ha vinto il male che don Rodrigo ha fatto. Renzo, dopo un primo istante di rabbia, perdona don Rodrigo d’istinto, ma padre Cristoforo lo frena: non si perdona d’istinto, bisogna sapere cos’è il perdono, l’azione umana suprema, che stacca una volta per tutte la vera dignità di un uomo dal male che ha compiuto. Il perdono è la sola azione che ci permette di dire veramente “tu” all’altro che ci sta di fronte.

Le conseguenze del perdono nella vita di una città e di una nazione sono enormi, anche solo considerando il perdono nel suo significato laico e civile: la capacità cioè di rispondere alle dinamiche distruttive, che sono inevitabili (il disagio, i torti, le ingiustizie, la violenza, il rancore sociale ecc.) con atti di pura gratuità.

Non solo: senza l’idea del perdono non esisterebbe nemmeno una legalità, a cominciare da quel supremo istante di libertà civile che fu l’istituzione dei Dieci Comandamenti, o se vogliamo la democrazia ateniese, celebrata da Eschilo ne Le Eumenidi, una tragedia che si conclude con un atto di perdono.
Come potrebbe la legge servire la giustizia se la sua applicazione fosse solo il “pagamento” di qualcosa?
Nelle parole del Papa questa preoccupazione risuona sempre, di qualunque cosa parli. Senza il perdono (a cominciare, come dice lui, da “per favore”, “grazie” e “scusa”) i motivi di conflitto - come tristemente dimostrano le cronache quotidiane, dove la rabbia e il rancore si mescolano spesso all’analfabetismo politico di chi comanda – dilagherebbero senza freni, e la legge stessa si trasformerebbe in qualcosa di mostruoso, in una violenza senza fine.
Perciò la parola “perdono” è la prima parola che il Papa ci invita a offrire alla nostra città, al pezzo di mondo in cui viviamo. Anche se costa fatica e, probabilmente, non ci fa diventare più ricchi.