Paul Claudel

Claudel. «Vedere cose impossibili»

Che cosa colma lo spazio fra il singolo e il cosmo? Lo spettacolo inaugurale del Meeting è una riscrittura teatrale de "La scarpetta di raso". A 150 anni dalla nascita del grande poeta, va in scena il paradosso cristiano (da "Tracce" di luglio/agosto)
Fabrizio Sinisi

«Il fanciullo / schiamazza e gioca in tutta libertà, e mangia quel che gli piace, / e dorme quanto gli basta. / Ma è giusto che, venuta la sua stagione, il giovane, / nel mirare il viso della donna, si senta / penetrato di gaudio, / e che in lui si risvegli una potenza, e che la guardi come nella / notte d’aprile / si vede il giardino bianco per la folgore».
Questo brano del Baratto esprime con chiarezza perentoria una questione decisiva – forse addirittura la questione – di tutta l’opera di Paul Claudel: quel punto della coscienza in cui si diventa uomini. Giungere, con tutto il proprio io, senza escludere nulla del proprio essere, a una maturità tale da far erompere una libertà nuova. Ma la libertà, in Claudel, è sempre una conseguenza di un evento – spesso addirittura un evento drammatico. Succede così nell’Annuncio a Maria, con i personaggi che devono affrontare la partenza improvvisa del capofamiglia, la malattia di Violaine, il tradimento di Mara. Succede a Ysè in Partage de midi. E succede a Prodezza, protagonista della Scarpetta di raso, donna divisa fra tre uomini, tre ragioni, tre visioni del mondo, attraverso i quali conquistare un nuovo modo di guardare le cose, un modo nuovo – eppure tanto più “suo” – di toccare e possedere il mondo intero. In quest’opera più che in ogni altra, Claudel ci comunica che questa strettoia attraverso cui si diventa adulti e si afferra la totalità delle cose è il sacrificio.

''Attraverso il mare del desiderio''. Le prove dello spettacolo inaugurale

Sarà proprio La scarpetta di raso – nella riscrittura di Giampiero Pizzol tratta dalla traduzione di Simonetta Valenti, dal titolo Attraverso il mare del desiderio – a inaugurare il Meeting di quest’anno. «Una follia», spiega il regista Otello Cenci, «che in Italia nessuno ha mai tentato prima. Una storia universale, un racconto di come attraverso molte burrasche il nostro cuore può scoprire il suo approdo, il suo posto nel mondo».
Una nuova edizione della Scarpetta di raso è già di per sé un evento importante dal punto di vista storico e culturale: l’enorme mole dell’opera (che, in una messinscena integrale, durerebbe undici ore) e lo sterminato numero di personaggi (circa settanta: da qui la necessità di una riscrittura), unita alle resistenze che, anche e forse soprattutto per motivi ideologici, l’opera di Claudel ha sempre trovato in Italia, ha fatto sì che pochissimi finora abbiano avuto l’occasione di vederla in scena.

Il Meeting offre una decisiva possibilità d’imbattersi in uno dei grandi capolavori del Novecento, proprio nel 150° anniversario della nascita di Claudel.
La scelta di mettere in scena La scarpetta di raso è però particolarmente felice non solo per il suo valore storiografico o per le coincidenze di calendario: essa ha infatti una straordinaria pertinenza con il titolo stesso del Meeting. «Teatro totale», si è detto spesso di quest’opera, e non solo per la sua monumentalità: l’azione della Scarpetta abbraccia infatti tutto il mondo, e nel suo svolgimento l’asse comune è dato proprio dal nesso inscindibile tra le vicende dei singoli – minime, apparentemente microscopiche – e il destino delle cose tutte.
La trama è uno schema narrativo molto semplice: in un Seicento leggendario, Donna Prodezza, sposata a Don Pelagio, corteggiata da Don Camillo, è però profondamente innamorata di Don Rodrigo, che la ama a sua volta. Tuttavia mai quest’amore verrà consumato: l’intero testo si costruisce come lo svolgimento, l’approfondimento delle ragioni di questa rinuncia, di questo sacrificio.
Il mondo intero viene portato sul palcoscenico per celebrare il dramma della natura umana davanti alla volontà di Dio. Non c’è infatti luogo della Terra che non venga toccato dalle vicende della Scarpetta: l’Europa e l’America, l’Asia e l’Oriente. Un immenso movimento, un dispiegamento di forze e di mondi che ruota intorno alla vicenda di un uomo e una donna che si amano senza toccarsi mai. Il desiderio dell’eterno e dell’infinito, a cui neanche la terra sembra poter bastare, si attua però nella terra e sulla terra, negli uomini e fra gli uomini. Rodrigo e Prodezza non possono prescindere dal mondo, dalla terra, dalla carne, eppure tutto questo non basta mai: chiede un superamento, un andare oltre. Nell’inizio della modernità, in cui tuttora ci troviamo, l’uomo s’imbatte nel dramma di non bastarsi.
Così ne parlava Urs von Balthasar, che considerava la Scarpetta uno dei capisaldi della cultura occidentale, e che ne curò anche la traduzione tedesca: «Il Seicento di Claudel è l’epoca in cui la Terra cresce sotto la chiglia di Cristoforo Colombo, che con una linea dritta come una freccia non cerca più l’orizzonte al di sopra di sé, ma davanti a sé. All’improvviso avviene una scoperta terribile e deliziosa: la linea si curva e torna su di sé. Il globo terracqueo è una prigione, per sempre. L’umanità si riferisce a se stessa non solo dal punto di vista geografico e astronomico, il suo desiderio stesso che puntava verso l’alto, verso gli angeli, si piega e torna su di sé. Se c’è un paradiso, allora è qui, sulla terra che deve trovarsi, su questa terra che forse sarà divorata dal fuoco del suo stesso desiderio e della sua colpa. Dal fuoco dell’amore e dell’ira di Dio, ma sarà una terra comunque rinata e trasfigurata».



Il dramma, il dolore, il sacrificio dell’essere umano daranno vita a un uomo nuovo, un uomo toccato da Dio, che è qui ad un tempo nella natura, contro di essa e al di sopra di essa, in un misterioso paradosso di cui i personaggi della Scarpetta sono, appunto, gli attori. «La gioia sola è madre del sacrificio», dice Rodrigo. «Quale gioia?», gli domanda il Cinese. «La visione di quella ch’essa mi dà», risponde Rodrigo. «Chiamate gioia la tortura del desiderio?», continua a interrogarlo il Cinese. E Rodrigo: «Non è il desiderio ch’essa ha letto sulle mie labbra, ma la riconoscenza». Ogni sacrificio scaturisce da una gratitudine – ogni rinuncia erompe da un ricevere. Ed ecco come il dramma personale inizia qui a diventare cosmico: le azioni di Rodrigo e Prodezza rompono la logica naturale, diventano testimonianze che letteralmente spaccano la struttura del mondo così com’esso è conosciuto, la bucano, la rendono trasparente, e anche i personaggi di orientamenti, culture e mondi diversi o addirittura opposti – che Claudel, essendo di mestiere un ambasciatore, conosceva benissimo – intravedono una diversità rapinosa. Al punto da subirne il fascino, e venirne cambiati. «Il bene che può farmi», confessa Don Camillo, «mi pare più temibile del male».
«Ciò che amo», dice Rodrigo di Prodezza, «non è ciò che in lei è torbido e ambiguo e incerto, né le domando ciò che in lei è inerte e neutro e caduco, ma ciò che è la causa di lei stessa, è l’essere nudo, la vita pura, è quell’amore forte come me sotto il mio desiderio come una gran fiamma divampante, come il riso del mio volto!». Rodrigo scopre di amare, in Prodezza, qualcosa di più profondo di lei stessa, ancora più profondo dei suoi «deboli lineamenti»: l’«essere nudo», la «vita pura», un amore più forte di entrambi, forte come il desiderio, che li rende vivi anche nel sacrificio, e che non spegne l’amore, ma anzi, nel sacrificio – paradossalmente – lo salva e lo compie. Un amore grande come il cosmo salva e compie l’amore di due singoli, piccoli esseri umani chiusi in un dramma che pare insolubile.
Lo rivela bene il dialogo fra Prodezza e l’Angelo Custode:

Angelo Custode:
Era giusto che tu gli facessi conoscere il desiderio.
Donna Prodezza:
Il desiderio di un’illusione? Di un’ombra che per sempre gli sfugge?
Angelo Custode:
Il desiderio è di ciò che esiste, l’illusione è di ciò che non esiste.
Il desiderio attraverso l’illusione è di ciò che esiste attraverso ciò che non esiste.

Il desiderio, scrive Claudel, è sempre autentico: è sempre il balenare di una verità. E anche in questo amore illegittimo e irrealizzabile, brilla qualcosa d’immortale:

Donna Prodezza:
Egli mi amerà per sempre?
Angelo Custode:
Ciò che ti rende tanto bella non può morire.
Ciò che fa ch’egli ti ami non può morire.

E ancora, nel dialogo fra Prodezza e Don Camillo:

Don Camillo:
Prodezza, voi sarete veramente di Rodrigo il giorno in cui finendo d’esser sua sarete soltanto di Dio.
Donna Prodezza:
Così per essere di Rodrigo, bisogna ch’io rinunci a Rodrigo?
Don Camillo:
Io credo che la croce non sarà soddisfatta se non quando avrete annientato tutto ciò che in voi non è la volontà di Dio.

Ecco come colmare lo spazio fra il particolare e il tutto, fra il singolo e il cosmo – la volontà di Dio, l’abbraccio amoroso della croce come il luogo del maggior splendore umano: ecco il grande paradosso cristiano che affascinava e insieme scandalizzava Claudel, così come ha sempre scandalizzato (e affascinato) i suoi detrattori. Ecco il punto in cui «le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice». In un’epoca come la nostra, in cui la croce «galleggia sul mare», «al punto in cui il limite del cielo conosciuto svanisce / e che è a uguale distanza dal mondo antico e dall’altro nuovo», solo da ciò che è “oltre il mondo” può venire la ragione “del mondo”: Claudel ci mostra come anche il più piccolo, sordido particolare può essere trafitto per sempre dall’eterno. E in quel modo brillare di una luce mai vista prima, così da porre a chiunque la domanda che Prodezza pone infine a Don Camillo: «Perché anche i vostri occhi non potrebbero vedere cose impossibili?».