André Kertész

André Kertész. Magnificare l'istante

«Amo scattare quel che merita di essere fotografato, il mondo quindi, anche nei suoi squarci di umile monotonia». Una mostra del Centro Culturale di Milano, aperta fino al 10 marzo, omaggia l’arte del maestro ungherese (da Tracce di febbraio)
Giuseppe Frangi

«Io sono un dilettante e intendo rimanere tale tutta la vita». Strana confessione da parte di uno come André Kertész, che a tutti gli effetti viene considerato un caposaldo della storia della fotografia. Per capire l’importanza del personaggio in questione basta, però, questa ammissione del grande Henri Cartier-Bresson, il quale diceva sempre che qualunque cosa noi avessimo visto, Kertész l’aveva vista prima. A lui è dedicata la mostra “Lo stupore della realtà”, organizzata dal Centro Culturale di Milano e che propone fino al 10 marzo oltre 90 scatti dell’artista ungherese.

Di lui si diceva che avesse «un occhio tascabile». Definizione sinteticamente geniale che spiega la sua natura e anche il suo metodo. Per quanto riguarda la natura, era un personaggio che si teneva alla larga dai palcoscenici, che rifuggiva gli effetti e anche le situazioni speciali, perché considerava la normalità come l’unico humus interessante per il suo lavoro di fotografo. Quanto al metodo, girava con macchine fotografiche piccole, che spesso teneva nascoste sotto il cappotto, per poter lavorare in modo furtivo, senza alterare la cosa che più lo affascinava e interessava: il semplice dato di realtà.

Mon frère imitant le «scherzo», Ungheria, 1919

La sua è una parabola che attraversa non solo il secolo ma anche i continenti. Nato a Budapest nel 1894, trasferitosi a Parigi nel 1925. Dal 1931 divenne americano “per sempre”. Nella sua Ungheria lavorava con una piccola camera Ica. Una volta arrivato a Parigi colse per primo le potenzialità di quella piccola macchina appena messa sul mercato, la Leica, i cui primi modelli erano comparsi nel 1925 e che lui pionieristicamente acquistò e iniziò a usare nel 1928.

Difficile collocare Kertész dentro una scuola o un filone della storia della fotografia del Novecento. Era libero da ogni dogmatismo stilistico e quindi ogni volta era capace di aprirsi strade sorprendenti che diventavano immediatamente punto di riferimento per chiunque si muovesse nel mondo della fotografia.

Intimità e quotidianità erano i suoi orizzonti prediletti. Ma dentro quegli orizzonti apparentemente ristretti si muoveva con una sorprendente capacità di innovazione, come se la familiarità con quei soggetti fosse uno stimolo a sperimentare sguardi nuovi e a volte anche audaci. Ad esempio, nel periodo giovanile in Ungheria lo vediamo immortalare con dolcezza le mani della madre, ma anche sorprendere il fratello con un controluce ardito, mentre salta come un acrobata di un teatrino delle ombre.

La fourchette, Parigi, 1928

«Sono nato chiuso, ma un chiuso aperto alla strada», raccontava di sé: «Amo scattare quel che merita di essere fotografato, il mondo quindi, anche nei suoi squarci di umile monotonia». Come ha scritto il critico francese Noël Bourcier, la magia di Kertész consiste proprio nella capacità di «magnificare» questi istanti apparentemente anonimi di monotonia quotidiana. «Magnificare», cioè guardare alla realtà, anche la realtà minima, come una inesauribile fonte di sorprese. «Fotografo il quotidiano della vita», diceva di sé, «quello che poteva sembrar banale prima di avergli donato nuova vita, grazie a uno sguardo nuovo».

In questo percorso Kertész, grazie a quel suo radicale anti-intellettualismo, non è mai uguale a se stesso. Frequenta tanti esponenti di punta della cultura parigina e americana, ma li approccia con la curiosità spavalda di un ragazzino. Così quando arriva nello studio di Piet Mondrian, il grande astrattista olandese emigrato Oltreoceano, decide di fotografare, in un momento di distrazione, la pipa e gli occhiali appoggiati sul tavolino. È un fuori percorso che restituisce in modo straordinariamente efficace la natura riflessiva di quel grande personaggio che neppure appare nell’inquadratura: eppure non c’è un altro ritratto di Mondrian che ci parli con tanta acutezza di lui.

Le Balcon, Martinica, 1 gennaio 1972

Per mettere in atto scelte come queste, Kertész si muoveva sulla spinta di uno stupore sperimentato davanti alle cose. Non si preoccupava mai di dare un aspetto visivamente e culturalmente coerente al suo percorso. Agiva seguendo l’istinto di chi è “nato fotografo”, libero da ogni schema. Proprio per questo detestava i virtuosismi e in camera oscura non correggeva mai le sue immagini: quello che la macchina aveva visto non poteva essere corretto. E non aveva bisogno di situazioni speciali per mettersi all’opera. Ad esempio, quando nel 1928 realizzò uno dei suoi scatti più celebri, si accontentò davvero di poco: una forchetta e un piatto sul tavolo di casa. Avrebbe potuto ricavarne un’immagine sofisticata e di un’elegante astrazione, invece volle rispettare la funzione dell’oggetto, appoggiandolo al piatto come nella pausa di una cena. Ancora una volta non aveva seguito un’intuizione estetica, ma si era mosso sull’onda di un’esperienza di stupore davanti alla bellezza sorpresa dentro un dettaglio banale. Ha scritto: «L’arte del fotografo è una scoperta continua che richiede pazienza e tempo. Una fotografia trae la sua bellezza dalla verità con cui è segnata».

Era anche audace e disinibito, Kertész: nel 1933 la rivista francese Sourire gli commissionò un lavoro con l’obiettivo di «produrre immagini di nudo capaci di rinnovare drasticamente il genere», e lui non ci pensò due volte. Nacque così la celebre serie delle Distorsioni, fotografie dove i corpi di donna erano riflessi in specchi deformanti, come quelli che si trovavano nei Luna Park. Molti liquidarono questo suo esperimento come una caduta di stile. In realtà si trattava di una “libertà dagli stili” e infatti quelle sue immagini hanno finito con il contaminare in modo impressionante l’immaginario di tantissimi artisti, fotografi e registi. Come aveva detto Cartier Bresson, Kertész è uno che vedeva sempre prima.

Essere “fotografo nato” significa che non c’è situazione che non sia degna di uno scatto. Quando, nel 1977, morì la sua seconda moglie Elisabeth, Kertész si chiuse in una sorta di ritiro nel suo appartamento di Washington Square Park. Ma anche in questa circostanza estrema della sua biografia il suo chiudersi fu in realtà un aprire: iniziò a fotografare dalla finestra con una Polaroid, avventurandosi anche nel colore, ricavandone un libro intitolato semplicemente From my Window. Aveva fotografato piccoli oggetti sul davanzale, o scene di vita colte dall’alto e da lontano. Piccoli miracoli scaturiti dal nulla che ci raccontano di uno sguardo sempre capace di meraviglia ma anche ferito dallo struggimento della nostalgia.