Michel Houellebecq (illustrazioni di Roberto Abbiati)

Michel Houellebecq. «La vita è rara»

Controverso, cinico, spesso sgradevole, ma sempre con una costante: la forza di una domanda che gli preme e che riguarda tutti. E per cui l'unica risposta non può che essere "tutto". Da Tracce di giugno, un ritratto dello scrittore francese
Fabrizio Sinisi

Ci sono autori con cui magari non si è d’accordo su niente, le cui ipotesi sul mondo e sulla vita sono lontanissime dalle nostre: eppure ci si confronta con essi continuamente, perché la loro opera è frutto di una ricerca così intensa e drammatica che quella forza d’interrogazione la vorremmo anche per noi.

Michel Houellebecq è senza dubbio uno di questi scrittori. Autore chiacchierato, cinico, spesso sgradevole, ma con una costante mai venuta meno: la posta in gioco di ogni sua opera è sempre altissima. Alla base di ogni suo romanzo c’è sempre sotteso un anelito irrinunciabile, la forza di una domanda che gli preme sino alla radice e che riguarda tutti.

Forse proprio per questo è ritenuto uno tra i pochi veri autori tragici dei nostri giorni: perché Houellebecq è uno tra i pochi scrittori d’oggi a chiedere tanto – a chiedere tutto. Proprio per la radicalità di questa domanda, che non si accontenta di niente di insufficiente o di penultimo, e spesso si affaccia nella disperazione, tanti lo definiscono un autore nichilista: se la risposta non è tutto, allora niente ha senso. Ma, come scrive Shakespeare, «la disperazione racchiude una speranza così grande che nemmeno l’ambizione può guardare più in alto».

Il nichilismo di Houellebecq, infatti, non è mai l’ultima parola: c’è sempre un corpo a corpo con la questione del senso della vita e della felicità, che non l’ha mai lasciato, come fosse qualcosa di imprescindibile non solo dalla sua scrittura, ma dalla sua esistenza: «Ecco una domanda cui difficilmente ci si può sottrarre. Ogni religione, ciascuna a modo suo, cerca di rispondere a questa domanda; e le persone non religiose se la pongono praticamente negli stessi termini: cosa possiamo sperare dalla vita?».

Già nell’incipit del suo primo romanzo, Estensione del dominio della lotta, aveva fatto capire il livello della questione: «Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo secolo. Perlopiù solo, egli intrattenne tuttavia rapporti saltuari con gli altri esseri umani. Visse in un’epoca infelice e travagliata».

Giacobbe e l'Angelo/1

Una descrizione in cui tanti di noi oggi potrebbero ritrovarsi. La storia è quella di un trentenne programmatore che scopre, a sue spese e pagandone un prezzo altissimo, la natura competitiva e violenta del mondo occidentale. La vita è una lotta, in cui gli uomini si ritrovano spesso a combattere uno contro l’altro, in un continuo, disperante equivoco di cui non si vede il senso e che non ha mai fine. Ma proprio qui troviamo il tema principale di Houellebecq, che sosterrà anche ogni opera successiva: l’origine di ogni lotta, di ogni dramma, di ogni fallimento, è il desiderio. Niente può resistere all’energia del desiderio. Eccolo il rovello che non ci si può strappare di dosso, quello che spinge l’uomo a ogni sofferenza, a ogni sfida, a ogni tentativo anche disperato: un desiderio che non si può frenare. «Di per sé il desiderio», scrive nel romanzo Le particelle elementari, «è fonte di sofferenza, di odio e di infelicità. (…) La società erotico-pubblicitaria in cui viviamo si accanisce a organizzare il desiderio, a svilupparlo fino a dimensioni inaudite, al tempo stesso controllandone la soddisfazione nel campo della sfera privata. Affinché la suddetta società funzioni, affinché la competizione continui, occorre che il desiderio cresca, si allarghi e divori la vita degli uomini».

Ci avviciniamo dunque in modo più preciso a uno dei centri della sua opera: cioè la necessità che la società riconosca la vera natura del desiderio umano. Il desiderio non è relegabile alla sfera privata: ma anzi proprio il modo di concepire e trattare il desiderio è ciò che definisce la qualità di una società. Ed è qui la ragione del fallimento di quella in cui viviamo: la nostra società fraintende il desiderio umano, anzi spesso lo strumentalizza, lo mercifica, trattandolo come il mezzo di una inarrestabile macchina consumistica. Questo travisamento è, per Houellebecq, innaturale, e costa all’uomo d’oggi un prezzo altissimo: «Se si aggredisce il mondo con una violenza sufficiente», scrive in La possibilità di un’isola, «allora finisce per sganciarli, i suoi sporchi soldi; ma non vi ridà mai e poi mai la gioia».

La scoperta che forse la gioia, oggi, nel mondo occidentale, è impossibile: ecco, per Houellebecq, la radice della tragedia dell’uomo contemporaneo.

Davanti a questa sconfitta del nostro mondo, i protagonisti dei suoi romanzi provano a rispondere tendenzialmente sempre allo stesso modo: con un esasperato cinismo, un nichilismo elevato a rassegnato stile di vita, in cui spesso l’unica speranza rimane quella di una soddisfazione sessuale che colmi il vuoto del desiderio inappagato. Houellebecq è spesso un rappresentatore ossessivo del tentativo (sempre illusorio) di raggiungere la felicità attraverso l’erotismo. Ma è un tentativo che fallisce sistematicamente.

Tuttavia, proprio questo fallimento fa emergere con ancor più prepotenza la natura indomabile del desiderio, proprio perché la speranza di esaudirlo l’ha risollevato dal suo oblìo. Scrive nelle Particelle elementari: «La nostra infelicità raggiunge il suo livello massimo solo quando intravediamo, sufficientemente prossima, la possibilità pratica della felicità».

Paradossalmente, è proprio la constatazione dell’infinità del desiderio a condannare i suoi personaggi alla disperazione. L’oscuro e inafferrabile oggetto del desiderio, la felicità piena, è infatti sempre al di là di qualsiasi progetto sociale: sembra fatta della materia, impossibile e non programmabile, simile alla grazia. «La vita è rara, la vita è rara», dice in una delle sue poesie. L’impalcatura delle cose solite crolla, e resta solo il desiderio nudo di fronte alla sua attesa: attesa di un amore impossibile, di un cambiamento da cui scoppi una possibile rinascita: «Muoiono talvolta d’un sol colpo, / certe sere. / C’erano certe abitudini che facevano la vita ed ecco che non / c’è più niente. / Il cielo che sembrava sopportabile diventa d’un sol colpo / profondamente nero. / Il dolore che sembrava accettabile diventa d’un sol colpo / lancinante. / Non ci sono che gli oggetti, oggetti fra i quali si è se stessi / immobilizzati nell’attesa, / cosa fra le cose, / cosa più fragile delle cose. / Gran povera cosa / che aspetta sempre l’amore. / L’amore, o la metamorfosi» (da Configurazioni dell’ultima riva ).

In fondo, è lo stesso problema di Sottomissione, il suo romanzo forse più famoso. Francia, anno 2022, elezioni presidenziali: il partito della Fratellanza musulmana, guidato dall’islamista moderato Ben Abbes, ottiene la maggioranza dei voti e la presidenza della Repubblica; inizia così il primo governo a guida islamica dell’Occidente. Questa, per sommi capi, la trama di un’opera straordinaria, imperniata sul tema del valore della libertà oggi. La domanda che sottende tutto è: cos’è la libertà? Ma soprattutto: quant’è preziosa oggi la libertà per l’uomo occidentale, che sembra così disposto a barattarla volentieri in cambio di valori più solidi e rassicuranti come la tranquillità o il benessere? La libertà, la morale, il senso del bene, fuori da un rapporto, sono pesi di cui è in fondo più comodo sbarazzarsi. Così afferma in un’intervista del 2015: «Della libertà l’uomo non ne può più, troppo faticosa. (…) In fondo la religione per me non è la fraternità, ma la comunione con una potenza spirituale realmente esistente e attiva. Una potenza anche fisica. (…) Il riconoscimento di una potenza, voglio dire, tale da rendere superflua l’esistenza stessa di una morale».

Ecco, forse, cos’è la vera «sottomissione»: la rassegnazione a un desiderio equivocato, depresso, depotenziato; la rinuncia alla natura infinita del cuore. Lo si vede nell’episodio forse più bello del libro, quando il protagonista François va in visita al Santuario della Vergine di Rocamadour. Prova a inginocchiarsi, a pregare, ma non ci riesce. Il tentativo di riallacciare un rapporto con l’infinito perduto del desiderio sembra fallito: «La Vergine aspettava nell’ombra, calma e immarcescibile. Possedeva la maestà, possedeva la forza, ma pian piano sentivo che perdevo il contatto, sentivo che lei si allontanava nello spazio e nei secoli mentre io mi rannicchiavo nel mio banco, rattrappito, ristretto. Dopo mezz’ora, mi rialzai, definitivamente abbandonato dallo Spirito, ridotto al mio corpo danneggiato, deperibile, e ridiscesi tristemente gli scalini in direzione del parcheggio».

Da questa intossicazione del desiderio non si può che tornare infelici e sconfitti: «Tornando a Parigi, superando il casello di Saint-Arnoult, lasciandomi alle spalle Savigny-sur-Orge, Antony e poi Montrouge, deviando verso l’uscita di Porte d’Italie, sapevo di avere davanti a me una vita senza gioia».

Serotonina, l’ultimo romanzo, uscito in questo 2019, sembra riproporre la questione in modo radicale e definitivo: mai un libro è sembrato così “ultimo”, così testamentario nell’annunciare un Occidente che ha smarrito la sua identità: «Ed ecco come muore una civiltà, senza seccature, senza pericoli né drammi e con pochissimo spargimento di sangue, una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé, cosa poteva propormi la socialdemocrazia, evidentemente niente, solo una perpetuazione della mancanza, un invito all’oblìo».

Giacobbe e l'Angelo/2

Ma non tutto è finito: da questa domanda non ci si può staccare, la lotta con il senso e per il senso, come quella di Giacobbe con l’Angelo, non può sciogliersi: «Io ero entrato in una notte senza fine, eppure persisteva, nella parte più profonda di me persisteva qualcosa, molto meno di una speranza, diciamo un’incertezza. Si potrebbe dire che in alcuni, anche quando hanno personalmente perso la partita, quando hanno giocato l’ultima carta, persista l’idea che qualcosa nel cielo riprenderà la situazione in mano, deciderà arbitrariamente di fare un nuovo giro, di rilanciare i dadi, e questo avviene anche quando non si sia percepito, in nessun momento della propria vita, l’intervento e neppure la presenza di una qualsiasi divinità».

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Qualcosa nel profondo resiste sempre all’annichilimento: e l’opera di Houellebecq, a volte così dura e spiazzante, non fa però che testimoniare l’inseparabilità dell’uomo da questa lotta. Lo ammette lui stesso, ormai autoesiliatosi in Irlanda come un eremita, in una lettera pubblica a Bernard-Henri Lévy: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora».

Il cuore continua a rialzarsi e ad attendere: e sempre cerca e coglie anche i minimi segni di rinascita. Come nell’inatteso, sorprendente finale di Serotonina, dove – come dopo una lunga notte di dolore e spaesamento – s’intravede il chiarore di un albeggiamento: «In realtà Dio si occupa di noi, pensa a noi in ogni istante, e a volte ci dà direttive molto precise. Questi slanci d’amore che affluiscono nei nostri petti fino a mozzarci il fiato, queste illuminazioni, queste estasi, inspiegabili se consideriamo la nostra natura biologica, il nostro statuto di semplici primati, sono estremamente chiari».

C’è qualcosa nel fondo dell’io, che preme e pulsa per continuare a desiderare e ad attendere, a dispetto di qualsiasi ferita. Dolorosa, contorta, piantata nel nervo del nostro tempo come una spina, l’opera di Michel Houellebecq continua a testimoniarci che questo qualcosa esiste, e che nonostante tutto, non è morto: esiste, forse, illuminata a tratti, la possibilità di una via.