«Io, la scienza e lo sguardo di Azurmendi»

Dagli eventi particolari, le grandi domande: per conoscere, l’esperienza prevale sull’astrazione. Un astrofisico guarda al cammino dell'antropologo spagnolo e lo confronta con il metodo scientifico. ("Legato ai fatti", da Tracce di novembre)
Marco Bersanelli

Ascoltare Mikel Azurmendi nel suo dialogo con Fernando De Haro, o leggere il suo libro L’abbraccio, vuol dire rimanere catturati dal racconto di una vita vissuta con un’intensità straordinaria sotto la spinta di un’inestinguibile sete di giustizia. Una sete che ha guidato il sociologo e antropologo basco in un percorso drammatico e a dir poco inedito, passando dal seminario cattolico al partito armato indipendentista dell’Eta, attraverso contesti intrisi di ideologia pur senza mai farsene determinare. Finché si è imbattuto, come per caso, in una strana realtà di uomini e donne che lo ha lasciato «esterrefatto per un certo modo di stare al mondo», al punto che quella «tribù di CL» è diventata l’oggetto principale dei suoi studi di antropologia e ha segnato un punto di svolta nel suo percorso esistenziale.

Ma in tutto questo, ciò che più colpisce è lo stile del suo racconto. Nel narrare la sua vicenda, Azurmendi ha negli occhi certi fatti che gli sono accaduti, e sono quei fatti la sorgente del suo giudizio e del suo pensiero. Ogni passaggio è scandito da precisi avvenimenti di cui ricorda la data, il contesto, i nomi delle persone coinvolte. Così, ecco l’incontro con Fernando de Haro; i dialoghi con Javier Prades; quelle persone alla Cañada Real che si prendono cura dei tossicodipendenti; la conferenza all’Encuentro Madrid; e poi quelle famiglie, quegli insegnanti e quel cartello appeso sul muro di una scuola con la scritta «Tu sei un dono».

Azurmendi parla con la lucida consapevolezza dello studioso e, al tempo stesso, con la semplicità del bambino. Non teorizza, non astrae, se non per lo stretto necessario. Mentre racconta quegli eventi ne sente ancora il contraccolpo, come se stessero riaccadendo in quell’istante. Dall’osservazione di quelle situazioni particolari nascono in lui domande grandi, che lo portano a interrogarsi su Dio, sull’Incarnazione, fino a condurlo sulla soglia della conversione. Ma per lui quelle grandi domande non sono categorie universali separabili dagli eventi che ha vissuto; al contrario, quelle domande sembrano prendere corpo e chiarirsi proprio dall’interno di quei fatti concreti, non spogliati dalle circostanze storiche in cui sono accaduti.
In definitiva l’approccio razionale che emerge dalla testimonianza di Azurmendi indica una netta e dichiarata prevalenza dell’esperienza vissuta su qualunque teorizzazione o astrazione a principi universali.
Mi ha sorpreso la possibile analogia, e al tempo stesso la differenza, di tale atteggiamento razionale con il metodo tipico dell’indagine scientifica. Si tratta, beninteso, di un paragone per analogia. Una ricerca esistenziale è cosa ben diversa da uno studio scientifico: sono due percorsi che hanno per oggetto realtà di ordine diverso e richiedono metodi distinti. Ma proprio per questo può essere interessante notare assonanze e diversità.

Mikel Azurmendi

Consideriamo, ad esempio, quello che succede in fisica. Anche in questo campo la prevalenza del dato dell’esperienza sull’astrazione costituisce una base fondamentale del metodo. Naturalmente in questo contesto la parola esperienza va intesa nel senso ristretto di “esperimento”, o di osservazione di certi fenomeni naturali; e per astrazione intendiamo la “teoria fisica” che mira a spiegare quelle osservazioni. Ma anche in questo ambito specifico una cosa è chiara: il dato prevale sulla teoria. Se i dati sperimentali a riguardo di un certo fenomeno non sono compatibili con l’interpretazione teorica, allora bisognerà prepararsi ad abbandonare quella teoria e cercarne una migliore. Il criterio di verità è radicato nella concretezza della realtà così come si presenta all’osservazione. I fisici formulano ipotesi, ma il loro banco di prova è sempre il confronto attento e leale di tali ipotesi con il dato sperimentale. Per questo qualunque sano percorso scientifico tende a mantenere la gittata delle proprie estrapolazioni all’interno di porzioni di mondo suscettibili di verifica sperimentale, almeno in linea di principio.

Questo continuo riferimento alla concretezza del reale è tutt’altro che ovvio e immediato, e richiede un preciso impegno. Come ha scritto il Premio Nobel Alexis Carrel, in un celebre passaggio di Riflessioni sulla condotta della vita, «ci siamo confinati nelle astrazioni anziché andare incontro alla realtà concreta… Osservare è meno facile che ragionare. È risaputo che scarse osservazioni e molti ragionamenti sono causa di errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità».
Ecco quindi l’analogia: come nel percorso esistenziale, anche in quello scientifico la prevalenza dei fatti sulle nostre interpretazioni è un fondamentale criterio di metodo, dal quale dipendono tutti i passi successivi.

Ciò detto, però, mi pare di cogliere anche una fondamentale differenza.
Se è vero che in fisica sono i dati sperimentali a dettare il criterio di verità, lo scopo dell’esperimento è in definitiva affermare o falsificare una certa visione sintetica del mondo, cioè una certa teoria. In questo senso, un esperimento è tipicamente concepito come strumento per giungere a conclusioni universali. Una volta che un particolare esperimento è concluso, esso ha esaurito il suo scopo e viene rapidamente archiviato a favore di progetti per l’esperimento successivo. Certo, è interessante conoscere quali particolari situazioni storiche hanno consentito di giungere a certe leggi universali, chi ne sono stati i protagonisti, in quale contesto, eccetera. Anzi, ciò è vitale se vogliamo farci un’idea di come la scienza effettivamente procede. Ma si può comprendere la meccanica quantistica anche senza essere esperti di storia della scienza, e soprattutto senza dover ripetere in prima persona tutti gli esperimenti che hanno condotto alla sua formulazione. Il valore di quegli eventi, per quanto cruciali, sta nel loro essere stati lo spunto per dirimere tra ipotesi diverse, selezionare la teoria. Una volta colto il senso universale dei risultati sperimentali e consolidata la visione fisica sottostante, quei particolari eventi storici che sono i singoli esperimenti tendono a sbiadire e scivolano rapidamente nel passato.

In campo esistenziale, invece, i “fatti” sembrano giocare un ruolo qualitativamente diverso. Nel racconto di Azurmendi appare chiaro che certi eventi (incontri, circostanze) non sono puri strumenti per la formulazione di una nuova dottrina, o spunti per elaborare una nuova visione della vita. Anche in quel caso si tratta di fenomeni “osservabili”, tanto interessanti e notevoli da richiedere una “spiegazione”; ma, a differenza che in campo scientifico, nessuna spiegazione di un fatto che colpisce al fondo il cuore dell’uomo è tale da rendere quel fatto obsoleto. Al contrario, l’apparire all’orizzonte di un’ipotesi di “spiegazione” (Dio si è fatto uomo?) farà rivivere sempre più intensamente quegli avvenimenti nella memoria, aumentando l’affezione e la gratitudine per averli vissuti. Si arriva a una verità universale, ma valorizzando fino in fondo i particolari che ce la consegnano.

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Il primato dei dati sulle interpretazioni, dell’esperienza sull’astrazione, sta alla base di ogni sano percorso conoscitivo. Ma a seconda del metodo – a seconda se stiamo parlando della legge di gravitazione o del senso della vita – le cose vanno diversamente. Forse si può dire che più l’oggetto è essenziale per vivere, più la sua conoscenza passa attraverso la concretezza di fatti irreversibili, che accadono in una loro misteriosa unicità.
Quante volte don Giussani ha raccontato certi episodi che hanno segnato in modo permanente la sua vita, e ogni volta per trarne giudizi nuovi e sorprendenti. Al suo sguardo, quegli avvenimenti sembravano avere un potenziale di ricchezza inesauribile. Nulla allora è più desiderabile che fare nostro quello sguardo, e sentirsi dire ciò che Julián Carrón ricordava alla Giornata d’inizio anno di CL: «Come Azurmendi, ciascuno di noi è invitato innanzitutto a guardare quello che succede davanti ai suoi occhi, quello che sta accadendo ora».