Jean-François Millet, "Sera d’inverno" (particolare), 1867 (© 2020 Museum of Fine Arts, Boston-Scala, Firenze)

Il quotidiano e l'eterno

Lo sguardo di Jean-François Millet nel Volantone di Natale. «Non è una Sacra Famiglia, ma è come investita da quel nesso tra il quotidiano e l’eterno che proprio la famiglia di Nazareth aveva portato nel mondo». Da Tracce di dicembre
Giuseppe Frangi

Barbizon è un piccolo paese sessanta chilometri a sud di Parigi: ma a metà del 1800 percorrere quella distanza era come passare da un mondo a un altro. Lo era ancor di più per un artista, che nella capitale poteva confrontarsi con tutte le affascinanti e tumultuose novità che avrebbero portato nel 1874 alla rivoluzione dell’Impressionismo.
A Jean-François Millet questa distanza non faceva problema. Anzi, la considerava una barriera protettiva che gli permetteva di concentrarsi e immergersi in ciò che più gli stava a cuore. A partire dal 1849 aveva scelto di stabilirsi proprio a Barbizon, con la moglie Catherine, dalla quale avrebbe avuto ben nove figli. Sarebbe rimasto lì per il resto della sua vita. Non era il solo artista ad aver fatto quella scelta, ma se in genere l’interesse di tanti suoi colleghi era originato soprattutto dal fascino per una natura incontaminata, a Millet invece stava a cuore il fattore umano. «Loro [i critici d’arte parigini] vogliono costringermi a entrare nella loro arte da salotto, per spezzare il mio spirito. No, no! Sono nato contadino e da contadino morirò. Dico quello che sento. Dipingo le cose come le vedo», diceva per spiegare la sua scelta. E poi, ancora: «Il lato umano è ciò che più mi tocca nell’arte».

L’opera scelta per il Volantone di Natale è emblematica di questo approccio. È un pastello realizzato nel 1867 e si intitola Serata d’inverno.
Millet non è un semplice osservatore di una realtà che pur ammira; non gli interessa documentare questo mondo, gli interessa coglierne lo spirito profondo, per farne la sostanza stessa della sua pittura. È realista e insieme devoto: devoto rispetto a quell’umanità contadina rimasta fedele alla terra e alla propria storia. Osserva con attenzione ogni gesto, come ad esempio quello del padre intento a intrecciare un cesto, ma non insegue la minuzia dei dettagli come se dovesse documentare la condizione sociale di chi ha di fronte. Davanti al suo sguardo non è, infatti, la povertà a definire lo status di quella famiglia, quanto la coscienza di un destino: in questo modo l’opera assorbe questa coscienza, nell’essenzialità della composizione, così semplice e insieme così alta e perfetta nei suoi equilibri.

Millet agisce per vicinanza: entra nell’intimità di questa casa contadina, stabilisce una familiarità, la scruta nella sua spoglia semplicità. È una scena reale, che però assume una forza metaforica; non è una Sacra Famiglia, ma è come investita da quel nesso certo tra il quotidiano e l’eterno che proprio la famiglia di Nazareth aveva sperimentato e portato nel mondo. La luce stessa della lampada a olio, punto d’irradiazione posto al centro della composizione, proprio sopra la culla del bambino, riecheggia l’iconografia della Natività. Una natività rivissuta in una casa contadina nella Francia profonda, anno 1867.

Quello di Millet era un mondo antico che però affascinava anche i moderni. Questo pastello venne, infatti, comperato da un collezionista americano, Quincy Adams Shaw, un miliardario proprietario di miniere di rame nel Michigan. Adams Shaw lo aveva poi donato al museo della sua città, Boston, insieme alle altre 53 opere di Millet che aveva comperato quando l’artista era ancora in vita. Tra i moderni conquistati da Millet c’è poi naturalmente anche Van Gogh, che aveva scoperto l’artista francese nel giugno del 1875, in occasione di un’asta di sue opere a Parigi, appartenute a un collezionista mecenate finito in rovina. «Millet è Millet, il padre», avrebbe scritto anni dopo a suo fratello Theo. «Con lui si impara a guardare meglio e a trovare “una fede”». Poi a Van Gogh sarebbe toccato un compito più rischioso: quello di catapultare l’amore al vero di Millet negli orizzonti inquieti della modernità. Lo ha fatto con la maestria che conosciamo, e che veniva anche da lì: dall’esperienza di essere figlio.