James Joyce (illustrazioni di Roberto Abbiati)

La via di Joyce

Il 13 gennaio 1941 moriva lo scrittore irlandese. Ottant'anni dopo, un piccolo viaggio nella sua vita e nella sua opera. Dall'ultimo numero di "Tracce"
Luca Doninelli

Esiste per un uomo - si chiedeva Giovanni Testori - qualcosa di più grande di un successo mondiale, di un trionfo, di un’apoteosi? Sì: uno scandalo capace di durare nel tempo e di sfidare nemici e amici, detrattori e apologeti. È il caso di James Joyce, di cui si ricordano il 13 gennaio gli ottant’anni dalla morte.

Joyce non è, oggi, uno scrittore molto frequentato. Di norma gli insegnanti di inglese fanno leggere ai loro studenti Gente di Dublino, che resta la sua opera più letta anche se non la più famosa.

Non succede soltanto a lui. Pensiamo a Pirandello, di cui tutti conosciamo Il fu Mattia Pascal anche se sappiamo che il suo capolavoro è Sei personaggi in cerca d’autore. Ma un testo teatrale (dicono) rispetto a un romanzo è più difficile da leggere standosene in poltrona. Mica vero, ma pazienza.

Anche per Joyce, tutti sanno che la sua opera più importante è Ulysses, un libro che però ha il difetto di essere in gran parte illeggibile, a meno che qualche pazzo sedicenne (come fui io, e poi lo fui di nuovo a trentacinque anni) non decida di compiere la grande traversata e leggerlo lo stesso, animato da quel sublime sentimento che spinge un giovane a tentare cose impossibili per la pura attrattiva che queste cose esercitano su di lui.

Non capire sapendo che, però, c’è qualcosa di importante da capire: questo è il legame affettivo da cui spesso nasce l’intelligenza. Ma oggi sono in pochi a leggere l’Ulysses. Sappiamo che all’origine doveva essere un racconto dal titolo Catharsis poi lievitato fino a oltrepassare le mille pagine, che la storia narrata (sempre che sia una storia) si svolge tutta a Dublino in un giorno solo, ma leggerlo è un’altra cosa. Anche se queste notizie, già da sole, un’indicazione ce la danno, perché l’unità di tempo (un giorno) e di luogo (Dublino) e il primo titolo (Catharsis, ossia purificazione) appartengono tutte a un solo autore ben riconoscibile, Aristotele, e tutte a una sua precisa opera, la Poetica.

Tutto questo, vedremo, ha una certa importanza. Noi cattolici non siamo (mediamente) molto sensibili al fascino del Proibito. Come molti sapranno, Ulysses rimase allo stato di samizdat, ossia di stampa clandestina, per decenni a causa dei temi scabrosi che tocca e a causa di una marcata avversione al cristianesimo e alla Chiesa, già ben presente in Gente di Dublino e confermata da molte lettere, nelle quali questa avversione si mescola spesso a immagini di erotismo spinto, non senza un’ombra equivoca di esibizionismo.

Ora, se questa è la vulgata, che ha prodotto un preconcetto (e si sa che nei preconcetti c’è spesso molta verità), bisogna poi fare un passo oltre, da quello che “si sa” alla vera conoscenza, ossia a ciò che “io so”. È una fatica personale, senza scorciatoie, che vale per tutte le cose. Restiamo allora sul suo libro-spia, sull’introduzione indispensabile a tutta la sua opera: Gente di Dublino. Lo stesso Joyce chiamò questi racconti «epifanie», ossia apparizioni, rivelazioni ma non definitive: istantanee, come quelle vecchie fotografie nelle quali, secondo alcuni, apparirebbe misteriosamente il volto di un defunto. Una verità, insomma: che sta sotto la superficie visibile del mondo ma che d’un tratto si rende visibile, illuminando situazioni umane confuse. Non a caso questi racconti sono pieni di finestre e di gente che sta alla finestra: è – direbbe Eliot – un correlativo oggettivo di uno stato umano che Joyce ventenne vuole a tutti i costi mettere a fuoco.

Dublino (Roberto Abbiati)

Ciò che, tuttavia, si rivela agli occhi dei protagonisti di questi racconti non è una salvezza, non è una capanna dove, in una mangiatoia, dorme il neonato Figlio di Dio. Ciò che si rivela, l’epifania, è piuttosto la paralisi della vita, la sua miopia, un’assenza di destino, un’incapacità di sfondare il telone dell’immaginario e delle memorie quotidiane.

In uno dei racconti più belli della raccolta, Eveline, una ragazza oppressa dal padre violento e dal fantasma della madre morta decide di fuggire verso il Sudamerica con un giovane marinaio innamorato di lei, Frank.
Anche in questo racconto la parola finestra compare subito, fin dalla prima riga. La giovane Eveline progetta la fuga con Frank, ma al momento finale, quando si trova all’imbarcadero e si tratta soltanto di salire sulla nave, dove Frank l’attende, Eveline si volge a guardare la propria vita passata e si trasforma (qui il riferimento biblico alla moglie di Lot in fuga da Sodoma è palese) in una specie di statua di sale. Tutta la sua condizione di schiava le appare, con un’evidenza nuova: il ricordo delle parole della madre poco prima di morire, le sue raccomandazioni riguardanti soprattutto il vecchio padre si trasformano in un veleno paralizzante. Frank grida il suo nome, la chiama a sé, la nave sta partendo, ma lei resta a terra, impietrita, e di Frank resta solo un’immagine sbiadita, forse una fantasia, o il ricordo di un capriccio, che negli anni a venire la farà ridere di un riso amaro.

Questo è ciò che Joyce chiama epifania: il momento in cui un individuo comincia a capire che il desiderio più profondo che si agita in lui non ha, né mai avrà, la forza per potersi lasciare indietro tutto ciò che lo lega al presente e al passato. Vengono alla mente i versi terribili di Leopardi in A Silvia: «All’apparir del vero, tu, misera, cadesti».

Ma, a differenza di Leopardi, Joyce non imputa alla Natura la colpa di una promessa non mantenuta. Per Leopardi una legge inesorabile, scritta in una lingua antica, condanna l’uomo a vivere dentro la stupidità della Storia, che è una specie di labirinto nel quale l’uomo smarrisce, tra mille promesse fatue, la strada che lo dovrebbe portare alla vera scoperta di se stesso. Joyce legge la natura in un altro modo, anche perché tra Leopardi e Joyce un enorme uragano di nome Sigmund Freud investe la cultura occidentale. Mentre Joyce scrive Dubliners, Freud dà alle stampe opere di importanza capitale quali Psicopatologia della vita quotidiana (1901) e Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), avendo già scritto e pubblicato, nel 1899, l’altro suo capolavoro L’interpretazione dei sogni.

Questo evento cambia in modo decisivo il modo di percepire il mondo, a cominciare, ovviamente, dal mondo interiore. Sia Leopardi che Joyce sanno - come lo sa Baudelaire - che la parola che definisce la posizione dell’uomo sulla terra è quella dell’ esilio. Un esilio dal quale non si può fuggire.
Leopardi cerca fughe che risultano abbastanza puerili, sia dal punto di vista geografico che da quello erotico.

Baudelaire indica nella Terra stessa la sede del nostro esilio («exilé sur le sol au milieu des huées», esiliato sulla terra fra le risa di scherno).
Dublino, poi, si affaccia sul mare in direzione dell’Europa (non dell’Oceano), quasi a indicare nella sua stessa collocazione geografica una sorta di sudditanza nei confronti della Grande Cultura Europea (proprio negli anni in cui il centro culturale del mondo comincia a passare dall’altra parte, in America). Ed è significativo come l’unico dramma teatrale di Joyce, Exiles (Esuli), si svolga nei sobborghi di Dublino e non sul mare, in un’epoca in cui centinaia di migliaia di irlandesi salpavano verso le Americhe.

Se il sentimento di esilio è uguale nei tre grandi letterati, è diverso il racconto che ne viene fatto. E qui entra di mezzo Freud. Nel racconto di Joyce una parte fondamentale è occupata dalle pulsioni erotiche e, in generale, da tutto ciò che nella nostra vita non è definibile secondo gli schemi della civiltà. Come dirà poi Freud nel suo testamento spirituale, Il disagio della civiltà, una società si fonda sulla trasformazione degli istinti, sul loro incanalamento in forme che, rendendoli funzionali a sé, al tempo stesso li neutralizzano, anche se loro, gli istinti, rimangono in sottofondo (rimozione) a rendere potenzialmente tellurico questo composto instabile che chiamiamo “uomo”, “autocoscienza”, “io”.

L’uomo è, insomma (domando scusa se banalizzo un po’), strutturalmente inadatto a vivere a questo mondo, la sua situazione è sempre provvisoria. L’Ulysses si conclude con il celebre monologo di Molly Bloom, una specie di complessa orchestrazione che può infastidire nella sua totale artificiosità se non fosse che proprio l’artificio, condotto a quel livello, si trasforma in un capolavoro. Se il naturalismo con cui un artista rappresenta la realtà è intriso di tutto ciò che lo blocca (preconcetti, idee già fatte, luoghi comuni eccetera), spezzare il cerchio naturalista diventa un imperativo.

E il monologo di Molly si chiude con un “sì” reiterato: sì alla vita, sì a questa vita, sì a questa vita così com’è. Non perché nella vita così com’è egli rintracci una presenza misteriosa, ma proprio per la ragione opposta: la vita non ha senso e va accettata nell’impulso vitale, inconoscibile, che la determina.

Eppure, eccoci - sia pure in una prospettiva diversa - al “sì” di Maria. Eccoci al punto in cui un Verbo che è “altro” da noi chiede di farsi carne. Certo, Joyce non la vede così. È un approdo fortemente volontaristico, il suo, con il quale Joyce (che nel frattempo ha conosciuto bene l’opera di Freud, anche come paziente) ritiene di aver superato la sua dolorosa paralisi spirituale. Ma - me lo domando come scrittore, come artista - è possibile risolvere attraverso l’arte un problema che attanaglia la nostra vita? Capisco la tentazione decadentista di trasformare la vita in un’opera d’arte, ma è davvero una via praticabile?

Io penso che, anche dopo aver letto l’Ulysses con il suo “sì” finale, sarebbe un errore sottovalutare il legame di Joyce con il cattolicesimo, visto che questo senso di esilio, di non-compimento di sé in questo mondo, è esattamente ciò che la nostra civiltà greco-cristiana ha chiamato anima (come dice il Salve Regina: «... e mostraci, dopo questo esilio, Gesù...»). Oltre cent’anni prima di Joyce, Kant e poi Hegel avevano bollato come falso ogni riferimento dell’uomo alla Trascendenza (anche se poi Kant non rinunciava all’idea di un “Dio remuneratore”): la vita e il suo senso sono qui, adesso, senza alcuna necessità di ipotizzare un “altrove”: l’uomo è perciò ragione, sentimento, emozione, sogno, progetto, desiderio, speranza, tutto questo senza alcun bisogno di scomodare l’anima.

Sempre su questo punto, tuttavia, Joyce mantiene un legame forte – non di fede, ma per così dire antropologico – con il cattolicesimo nel quale crebbe, al Trinity College di Dublino, e dove fu formato alla scuola aristotelico-tomista, com’è facile vedere nell’incipit aristotelico del terzo capitolo dell’Ulysses, «Ineluttabile modalità del visibile», e nella citazione delle Vie tomistiche.
Ma proprio in questo si comprende meglio l’ira di Joyce contro una Chiesa che, da un lato, come detto, annunciava la Buona Novella che promette la liberazione dalle catene che opprimono ogni uomo, e dall’altro era la prima operatrice di oppressione, con le sue regole, i suoi obblighi, il suo moralismo e la paura usata come metodo per ricattare, in un modo o nell’altro, le coscienze di tutti.

Insomma, lasciando perdere le colpe storiche della Chiesa in generale e di quella irlandese in particolare, l’impressione che si ha, leggendo Joyce (e io l’ho fatto tanto da trarre proprio da lui il sogno che ha fatto di me uno scrittore), è di un uomo che, per rubare le parole a Rimbaud, resta in tutti i casi prigioniero del proprio Battesimo. E sono certo che la lotta contro questo marchio a fuoco costituisca il senso profondo di tutta la sua straordinaria opera.



Luca Doninelli, scrittore, nasce a Leno (Brescia) nel 1956. Discepolo di Giovanni Testori, è anche autore teatrale e per l’infanzia. Ha esordito nel 1990 con I due fratelli. Tra le sue opere: La revoca (1992), La nuova era (1999), Tornavamo dal mare (2004), Cattedrali (2011), Le cose semplici (2015), e La conoscenza di sé (2017), Tre casi per l’investigatore Wickson Alieni (2018, Premio Strega Ragazzi), Tre lezioni sul Romanzo (2019).

da Tracce, gennaio 2020