Con Péguy, per guardare a ciò che vale
L'abate Mauro-Giuseppe Lepori e il teologo René Roux in dialogo, partendo da una recente pubblicazione, sul grande poeta francese. Un incontro del Centro culturale Kolbe di Varese e il De Gasperi di LegnanoBella sfida rileggere Charles Péguy oggi, cent’anni dopo l’uscita dei suoi scritti più conosciuti, in un contesto storico e sociale totalmente diverso dagli inizi del Novecento e, in più, durante la pandemia. Ma i grandi scrittori parlano agli uomini di ogni tempo perché vanno dritti alle domande costitutive, e l’autore francese non fa eccezione con la sua profondità e la sua scrittura tormentata, fatta di parole che si rincorrono quasi a tentoni, come fa la mano di uno scalatore che tocca e vaglia tante rocce prima di trovare l’appiglio sicuro.
In questa arrampicata, il Centro culturale “Massimiliano Kolbe” di Varese e l'Associazione Alcide De Gasperi di Legnano offrono in un incontro online (il video è disponibile sul canale Youtube del Kolbe) due guide di eccezione: Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’Ordine cistercense, e René Roux, rettore della Facoltà teologica di Lugano. Il monaco e il teologo sono stati chiamati a confrontarsi su un libro di alto profilo accademico che raccoglie un’antologia di testi di Péguy, Il fazzoletto di Véronique, da poco pubblicato da Cantagalli con prefazione di Julián Carrón. Il curatore, Pigi Colognesi, e il traduttore, Antonio Tombolini, propongono brevi testi per il dialogo. «Gesù non si rifugiò dietro la cattiveria dei tempi», scrive Péguy, «non incriminò il mondo. Salvò il mondo». Oppure: «Non manca il ragionamento ma la carità». O ancora: «Per sperare bisogna essere molto felici. Bisogna avere ricevuto una grande grazia».
«Péguy è un profeta che in pieno naufragio ha il coraggio della carità di richiamarci alla responsabilità di non stare a guardare, magari compiacendosi di avere avuto ragione», dice Lepori. È un primo insegnamento. Péguy si sente un naufrago, come tanti uomini e donne di oggi, alla deriva in un oceano in tempesta perenne, ma non se ne lamenta: è la condizione dell’esistenza. «Cristo non ci salva perché siamo migliori, ma perché ci riconosciamo peccatori», spiega l’abate. «Il mea culpa è l’accusa di sé. È la ragione per cui nacquero i monasteri». Per molti il peccato è uno scandalo, per altri è l’occasione di lanciare accuse o alzare lamenti perché porta a intiepidirsi. Osserva Lepori: «Ma il fervore si raffredda per sua natura. Il fuoco di Dio si intiepidisce per il solo fatto di essere messo in noi che siamo nel mondo, e i monasteri non sono thermos che devono tenere il cuore al caldo. Il problema non è intiepidirsi, ma rifiutare di riscaldarsi al fuoco che Cristo è venuto ad accendere nel mondo. Quel fuoco ardente è una fiamma che mendica di accendere noi». Non è che duemila anni fa la cattiveria dei tempi fosse minore che oggi. La lezione di Péguy è che «il problema non è il mondo, né Cristo che pure ha salvato il mondo pur potendo sottrarsi alla croce. Il problema siamo noi quando ci mettiamo al sicuro da Cristo».
Roux coglie analogie tra i tempi dello scrittore e i nostri. «Cent’anni fa la Francia era pervasa da un pensiero scientifico anticlericale e la Chiesa aveva perso contatto con l’universo operaio. Molti cristiani credevano di non essere stati abbastanza convincenti nelle argomentazioni. Péguy testimonia che la verità senza carità non porta da nessuna parte. Il cristianesimo deve riscoprire la pienezza della verità che si esprime nella carità. E deve riconoscere la propria umanità, la debolezza che caratterizza l’umano, e guardare al di là. Quando si riconosce la propria umanità si origina l’apertura alla grazia. La debolezza e la sproporzione non è una condizione angosciante o patologica, ma la condizione per accettare la grazia».
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C’è una parola che sta sotto tutta l’esperienza di Péguy: speranza. È il poeta della speranza. «Ci ripetiamo che viviamo in un’epoca scristianizzata», dice Lepori: «Ma non può mai esserci una vera scristianizzazione perché Cristo non può mai essere annullato del tutto. Péguy ne era certo, aveva questa fede immensa e sperava nella disperazione». Aggiunge Roux: «Péguy è una persona che aiuta a fermarsi, a riflettere e guardare al di là dell’immediatezza, a ciò che davvero vale. Oggi noi siamo abituati a una vita comoda, senza grossi problemi, lontani da guerre e povertà estreme. La pandemia ci costringe a domandarci di nuovo che cosa conta, cosa regge, su che cosa costruire. In questo Péguy è un grande compagno di strada».