Testori in scena. «Che cosa salva me?»
Un gruppo di studenti della Statale di Milano si confronta con "Factum Est", che andrà in scena nella cappella dell'università il 31 marzo. Un'avventura sul palcoscenico, per dire di un grido nato nella quarantenaQuest’anno la vita universitaria è trascorsa perlopiù a distanza, così come la vita per chi da poco si è affacciato nel mondo del lavoro. Si avvicina la Pasqua, di fronte al bisogno di sfidare questa distanza tra alcuni amici di Lettere e Filosofia della Statale di Milano si fa largo una ipotesi: facciamo teatro. Una cosa antistorica, pare dire l’uomo del 2021, ma per molti uno strumento misteriosamente calzante di condivisione e di servizio. Così la proposta prende piede, si apre agli amici con cui negli anni la si è condivisa, come me e Gianmarco e, con strani sincronismi, compare il nome di Giovanni Testori: dirompente testimonianza di una domanda che si fa popolo, il popolo delle centinaia di giovani che prendevano parte ai suoi spettacoli.
Il primo appello è rivolto a coloro che si avvertono come compagni inevitabili. Qualcosa germina, ma è come informe, sono tanti punti di fascino senza una chiara direzione, se non che matura, nelle serate passate insieme con fedeltà crescente – e qualche volto in più di volta in volta –, una familiarità crescente nei rapporti fra noi, anche se molti erano fino a poco tempo prima sconosciuti.
Così l’intuizione diventa metodo: decidiamo di incontrare coloro per cui Testori in persona è stato maestro. Spaesati e attenti incontriamo lo scrittore Luca Doninelli e l’attore Andrea Soffiantini che ci comunicano a distanza, da professionisti affermati, di essere ancora, in qualche modo, figli suoi; poi Giuseppe Frangi, presidente dell’associazione Testori e l’attrice e autrice teatrale Angela Demattè: anche per loro l’indicazione comune è appresa da Testori: libertà e lotta. Occorre scontrarsi con il testo: l’obbedienza, per loro e per noi, ora, è in questo paragone carnale, vitale.
Questo accade, da lì, tutte le sere. Il Factum est è come spontaneamente scelto perché fra tutti i testi letti viene avvertito come il più sfidante e denso; per chi da un anno dice il suo “sì” quotidiano dalla propria camera è persino spontaneo identificarsi con l’urlo isolato dell’opera.
Ogni sera si legge una lassa: a turno uno la studia, la confronta a seconda della sua esperienza e dei suoi studi, la lavora, la fa sua, la legge. Pochissimi sono coloro che studiano teatro ma la parola così assalita, diventa carne. Il critico letterario Carlo Bo, commentando proprio Testori, dice che Cristo «non è cultura», ma un evento di incarnazione e scandalo, che risiede anzitutto nel vedere una fedeltà sempre più solida al lavoro. Lo scandalo di vedere la parola non come una cosa sacra in sé, ma che deve rendere ragione di sé stessa, chiede di essere vissuta e sfidata. Lo scandalo degli interrogativi che insorgono nella lettura del testo: perché il dolore? Che posto ha il perdono? Cosa significa che la vita “vale” in sé? Se Testori avesse voluto darci soltanto questa formula non si spiegherebbe perché tra il momento della nascita e quello della morte del feto abbia posto quattordici lasse; è nel grido di quelle quattordici stazioni, di tutta quella “dignità” concessa alla vita – anche se solo parola inascoltata – che Testori indica il percorso obbligato.
Il cerchio si allarga, si contattano gli scenografi: è il “corpo dell’uomo” il luogo del teatro, diceva Testori nel 1981: «Non come metafora ma come azione dell’uomo che riguarda il suo destino». La metafora del corpo dell’uomo come luogo del teatro si scioglie: è nato, in piccolissimo, un popolo. Tutto è rapporto, dicono gli occhi di chi nemmeno si conosceva. La bellezza, a cui qualcuno durante i lockdown pensava di poter dedicare più tempo con libri, film, serie tv, solo ora sembra davvero feconda. Viene in mente la famosa frase di Dostoevskij: «La bellezza salverà il mondo», ma tutto l’anno trascorso e le ferite presenti dicono chiaramente che questo non è vero. Allora si rafforza l’interrogativo: «Cosa salva me?», tanto più imponente e travolgente quanto più vivo e crudo il dramma da cui scaturisce.
Le domande che sorgevano rimbalzavano tra il testo e la realtà. Il grido sul senso della vita del feto trovava eco in quello che ci succedeva attorno: è un anno pieno di paura, di morte, di limitazioni. Non a caso, al fondo della domanda “cosa salva me?” siamo giunti un’altra volta a un rapporto. Il dialogo di Testori e don Giussani nel Senso della nascita pone a un certo punto una strada più concreta, che parla di noi: «Il concetto supremo antropologicamente più grande del cristianesimo, è il concetto d’offerta. [...] Se l’uomo in quel che fa, in quello che sta facendo, fosse anche lì, fermo, nel letto» – nella pancia della mamma, in terapia intensiva, alla nostra scrivania pensavamo noi – «riconosce d’appartenere al disegno di Dio e alla sua volontà, riconosce di appartenere a Cristo, egli diventa insostituibile funzione a quel disegno; quel disegno mancherebbe di qualche cosa se mancasse di quell’istante; e quel disegno, a prescindere da tutti i condizionamenti, dà a quell’istante dell’uomo tutta la carica del suo significato totale, cioè Cristo stesso. Non c’è più l’inutile, non c’è più lo sfortunato, non c’è più il disgraziato, non c’è più deietto; ma tutto quanto il valore dell’uomo [...] si gioca nella coscienza e accettazione di appartenere in quello che fa».
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La rappresentazione sarà trasmessa in diretta dalla Cappella Universitaria dell’Annunciazione presso l’Università Statale di Milano il 31 marzo alle ore 18.30 grazie alla regia-video dell’attore e video-maker Matteo Bonanni, tramite il canale YouTube di Desidera Teatro Oscar, dove rimarrà reperibile.