Edgar Lee Masters (illustrazione di Roberto Abbiati)

Edgar Lee Masters. «Rompete l’incantesimo»

Fra attesa e rivelazione si gioca il suo metodo di scrittura. E la chiave delle sue poesie. Un viaggio nell’"Antologia di Spoon River" del poeta avvocato, i cui versi sono risuonati agli Esercizi (da "Tracce" di giugno)
Andrea Fazioli

Era un vecchio libro, con una copertina bianca a strisce rosse: Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River. Quando mi capitò per le mani, da ragazzino, notai che mio padre l’aveva donato a mia madre prima della mia nascita, scrivendo una dedica oscura: «Per i tuoi occhi d’arancio». Cominciai a sfogliare il volume. Non capivo granché, ma mi affascinava il sommario finale, che consisteva in una serie di nomi e cognomi. Forse per via di quell’espressione bizzarra – occhi d’arancio? – mi parve d’intuire che quelle poesie avevano a che fare con il mistero, con la memoria, con il fatto che ogni singola vita sia straordinaria.

Edgar Lee Masters (1868-1950) pubblicò l’ Antologia di Spoon River nel 1915, con il proposito di «rappresentare un macrocosmo a partire da un microcosmo». Il volume, che ebbe un enorme successo, è composto da 244 epitaffi, idealmente trascritti dal cimitero di Spoon River, un villaggio immaginario del Midwest americano. Sono poesie brevi, nelle quali i morti si esprimono in prima persona. Alcuni testi s’intrecciano fra di loro, creando diciannove storie che percorrono la raccolta. Masters era un avvocato e trasse ispirazione dal suo lavoro, con i fallimenti, le dispute, gli affanni, la quotidianità intessuta da timori e speranze. In seguito abbandonò la professione di legale per quella di autore: scrisse più di cinquanta opere, così come molto aveva scritto prima dell’ Antologia. Tuttavia non riuscì a replicare quel successo e morì in povertà, come parecchi suoi personaggi.



Il libro è popolato di falliti, matti, ubriaconi, insieme a persone comuni e spiriti illuminati. Ci sono tutti i mestieri: medico, artista, soldato, giudice, modista, chimico, maestra, lavandaia, poeta e molti altri. Sono presenti individui di ogni età, da un bambino non ancora nato a Lucinda Matlock, morta serenamente a novantasei anni, la quale riassume così la sua vita colma di grazia: «Filavo, tessevo, curavo la casa, vegliavo i malati, / coltivavo il giardino e, la festa, / andavo a spasso per i campi dove cantano le allodole, / e lungo lo Spoon raccogliendo tante conchiglie, / e tanti fiori e tante erbe medicinali – / gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate».

Le poesie sono percorse da una doppia corrente: da una parte ogni uomo e ogni donna si allacciano alla comunità, per vicinanza o per opposizione; dall’altra ognuno narra il proprio destino individuale e irripetibile. Come alla luce di un lampo, in ogni epitaffio si distingue un gesto, una parola, un pensiero decisivo per l’esistenza. Credo che il significato più profondo vada oltre la riflessione morale dell’autore, ma consista proprio nell’azione stessa di pronunciare il nome e il cognome di tutti, anche dei dimenticati, dei reietti, perfino delle persone spregevoli. Così annotava Cesare Pavese nel 1930: «È il poema essenzialmente moderno, questo, della ricerca, dell’insufficienza d’ogni schema, del bisogno insieme individuale e collettivo. Voi trovate che il rimpianto di un bambino, morto di tetano giocando, assurge alla stessa importanza cosmica dell’estasi di uno studioso che ha passata la vita ad adorare terra e cielo».

Proprio Pavese portò il volume in Italia: nel 1943 chiese a Fernanda Pivano di tradurlo e riuscì a farlo pubblicare da Einaudi, nonostante la censura fascista; è un’edizione storica, ristampata più volte. Mentre scrivo ho davanti agli occhi proprio questa versione – «per i tuoi occhi d’arancio» – ma nel frattempo ne sono uscite molte altre. Nel 1971 Fabrizio De André pubblicò un album ispirato a Masters: Non al denaro non all’amore né al cielo. Il cantautore era affascinato in particolare dalla figura del vecchio suonatore Jones: «La terra ti suscita, / vibrazioni nel cuore: sei tu. / E se la gente sa che sai suonare, / suonare ti tocca, per tutta la vita».

Masters racconta nella sua autobiografia che la stesura delle poesie procedeva secondo un ritmo imprevedibile: a volte un epitaffio si affacciava all’improvviso, dopo che l’autore l’aveva aspettato a lungo, e la rivelazione veniva annotata al volo su un pezzetto di carta o sul retro di una busta. La dinamica dell’attesa e della rivelazione, oltre a essere il metodo di scrittura di Masters, è anche la chiave di tante poesie. I personaggi vivono anni di attesa, lunghe epoche d’incertezza, e spesso la folgorazione avviene in un istante, lasciandoli con un sentimento che va dalla rabbia alla serenità, dal sollievo al rimorso.

«... Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita. / E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino, / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre a follia, / ma una vita senza senso è la tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio / è una barca che anela al mare eppure lo teme». Julián Carrón ha evocato proprio questi versi agli ultimi Esercizi spirituali della Fraternità, per illustrare in che cosa consista il dramma della libertà: tutti noi siamo come una barca che attende il mare, eppure ne ha paura. «Ecco, allora, che si apre la lotta», diceva: «Assecondare l’anelito al mare, la fame di una vita piena di significato, oppure ritirarsi, accontentarsi, non rischiare, per paura degli imprevisti».

Fra l’attesa e la rivelazione, di qualunque natura essa sia, sta proprio la sfida della libertà. E questa non può che compiersi in modo soggettivo. Già Pavese metteva l’accento su questo aspetto: «Ciascuno di questi morti porta in sé una situazione, un ricordo, un paesaggio, una parola, che è cosa indicibilmente sua». Noi tutti che viviamo nel tempo, secondo Pavese, tendiamo «all’attimo estatico che ci farà realizzare la nostra libertà». Naturalmente, il momento risolutivo implica una decisione personale sull’esistenza.

Mentre ascolto le voci di Spoon River ripenso a una frase del filosofo Jean Guitton, secondo cui «l’ assurdo e il mistero sono le due possibili soluzioni dell’enigma che l’esperienza della vita ci propone di sciogliere». Ogni epitaffio percorre questo crinale, ogni vicissitudine oscilla fra questi due poli. La domanda brucia: «La speranza d’un mucchio d’ombra / e null’altro è la nostra sorte?». L’assurdo sembra pervadere la vicenda di Cassius Hueffer, che «mosse guerra alla vita, / e vi rimase ucciso». C’è chi come Alonzo Churchill «attraverso le stelle» intuisce nello stesso tempo la «piccolezza» e la «grandezza dell’uomo». Ma forse «i nostri cuori rispondono a stelle / che non vogliono saperne di noi?».

Guitton scrive: «Nel perpetuo moto pendolare dell’oscillazione, l’assurdità dell’assurdo mi conduce in direzione del mistero». Può capitare che tu sia seduto con un amico «e d’improvviso / cade un silenzio nel discorso, e i suoi occhi / senza un guizzo ti guardano: / avete visto insieme il segreto, / egli lo vede in te, e tu in lui».

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Può succedere che Griffy il bottaio, che oltre a «intendersi di tinozze» conosce gli esseri umani, ci rivolga un’esortazione: «Rompete l’incantesimo / di credere che la vostra tinozza è la vita». Dietro l’assurdità dei fallimenti, dei suicidi, delle ingiustizie, c’è la speranza espressa da Le Roy Goldman: «E benedetto tu sia, dico io, che adesso so tutto, / tu che hai perduto, prima della morte, / il padre o la madre, o il vecchio nonno o la nonna, / un’anima bella che visse fortemente la vita, / e ti conobbe a fondo, e sempre ti amò, / che non mancherà di parlare per te, / e dare a Dio una vera immagine della tua anima». Quando leggo queste parole mi sembra che, oltre ai personaggi citati nel sommario, l’ Antologia di Spoon River si popoli di tutti i miei cari scomparsi: senza bisogno di epitaffi, nel mistero del loro silenzio, mi sono accanto e m’infondono coraggio.