(Foto iStock: cmart7327/iStock)

11 settembre 2021. «Quel silenzio è la tua voce»

Uno scrittore si confronta con l'attentato che ha cambiato la nostra storia. Rilegge brani di grandi autori su quell'evento e cerca tracce dell'11/9 nella letteratura del passato. Per capire che cosa è successo a lui
Andrea Fazioli

Spesso mi sorprendo a pensare che il silenzio sia il modo migliore per sottolineare una ricorrenza. Non per paura o per snobismo, ma nella convinzione che le parole non dette abbiano una speciale facoltà comunicativa. Scrisse Romano Guardini: «Il silenzio non è solo assenza di qualcosa – un semplice intervallo tra parole e rumori – ma è esso stesso qualcosa». Una delle più celebri poesie sull’11 settembre, e una delle delle più belle, è quella dell’autrice polacca Wisława Szymborska, Premio Nobel per la letteratura nel 1996. S’intitola Fotografia dell’11 settembre ed è apparsa nella raccolta Attimo (2002). Eccola, nella traduzione di Pietro Marchesani.

Sono saltati giù dai piani in fiamme
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto

La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.

Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.

C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.

Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.

Solo due cose posso fare per loro –
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.

Mi commuove in particolare l’ultimo verso, che sottolinea la forza espressiva del silenzio. La voce poetica si chiede che cosa possa «fare per loro»: quel «per loro» è interessante, perché mette l’attenzione sulle vittime. Quando si parla dell’11 settembre, la nostra memoria comincia sempre con il situare noi stessi, come per un bisogno di concretezza. Chi non si ricorda dov’era quando ha saputo del crollo delle Torri? Io stavo camminando a Milano, con un’amica e un amico. Riceviamo una telefonata, non comprendiamo subito che cosa sia accaduto, entriamo in un bar, guardiamo la tivù. Non sembra vero. Nei giorni successivi le immagini tornano, ossessive, da decine, centinaia di televisori, a casa, al lavoro, per strada. La paura di viaggiare, di volare. Soprattutto, la paura di nuovi attentati. Nel ricordo, insieme allo sconcerto, riaffiora l’orrore e la pietà per «loro». Le vittime viste e riviste sugli schermi. Persone coperte di polvere, straziate, oppure sospese nell’ultimo volo.

Anche il poeta italiano Mario Luzi, in una poesia apparsa sul quotidiano La Nazione nel gennaio 2002, pensava alle vittime:

Si sono mescolati
in quella frenesia di morte
dell’estremo affronto i sangui,
l’arabo, l’ebreo,
il cristiano, l’indio.
E ora vi richiamerà
qualcuno ai vostri fasti.
Risorgete, risorgete,
non più torri, ma steli,
gigli di preghiera.
Avvenga per desiderio
di pace. Di pace vera.

Luzi, all’epoca ottantasettenne, pensava al futuro. A una sorta di ricostruzione, di ristabilimento dell’equilibrio, come alla fine delle storie.
Ho citato due poesie scritte a pochi mesi dall’evento. Il valore della letteratura non sta comunque nell’essere “attuale” in senso giornalistico, quanto piuttosto nella capacità di parlare sempre del presente, anche a distanza di secoli. Fin dall’inizio dei tempi, in un certo senso, narratori e poeti hanno scritto dell’11 settembre.

Prendiamo per esempio due antiche città arabe: Zawīla e al-Mahdiyya. Ne parla Zakariyyāʾ al-Qazwīnī (1203-83), autore fra le altre cose dell’opera Āthār al-bilād wa akhbār al-ʿibād (“Vestigia dei paesi e notizie del genere umano”), conosciuta anche come Geografia, in cui mescola luoghi reali e fantastici. A proposito di al-Mahdiyya scrive che si tratta della città in cui risiedono i nobili, protetta da mura possenti e da guardie armate. Accanto, c’è una città abitata invece dal popolo: Zawīla, priva di ogni struttura difensiva. Gli abitanti di Zawīla si sentono indifesi, perciò hanno messo a punto un sistema di sorveglianza poliziesco. In particolare, controllano scrupolosamente tutti gli stranieri che entrano in città e si premurano di osservare l’impronta del loro piede, in maniera da essere pronti a identificarli in caso di guai.

Ecco, nonostante l’opera di Al-Qazwīnī risalga al XIII secolo, di certo dopo l’11 settembre viviamo tutti a Zawīla. All’inizio era straniante: ogni volta che venivo perquisito, ogni volta che mi rendevo conto dei controlli, sentivo il disagio di essere un sospetto. Io stesso, così come tutti i passeggeri di un treno o di un aeroporto, avrei potuto portare la guerra nella quotidianità. Col tempo mi sono abituato: ora lascio che le guardie di Zawīla prendano nota delle mie impronte, dei miei viaggi, dei siti che visito su internet. Forse è perfino diventato un aiuto a riflettere sulla libertà, che non ha niente a che vedere con la mancanza di controllo o con l’irreperibilità.

Nel 2001 avevo ventitre anni. I miei romanzi, i miei racconti più maturi sono nati tutti dopo. Non so se in essi si trovino tracce dell’11 settembre 2001; di certo, negli anni ho maturato un interesse per il mondo arabo e anche per l’Islam. Questa curiosità nei confronti dell’altro, che nutre la mia scrittura e che mi ha portato anche a studiare la lingua araba, potrebbe essere in parte una risposta alla rottura dell’equilibrio che ho percepito quel giorno, nel modo in cui può percepirla uno studente universitario che ancora non conosce il mondo, ma che di certo misura anche in sé l’impatto emotivo della storia.

Ho ritrovato il mistero dell’equilibrio in un breve racconto di Gesualdo Bufalino, tratto da Museo d’ombre (1982). L’autore siciliano presenta alcuni “matti del villaggio” del suo paese. Fra questi anche un certo Biagio Re.

«Alto, dinoccolato, con occhi piccini e opachi, persi dietro un pensiero che non mutava. Per anni non fece altro che chiedere a chiunque incontrasse: “Comu tieninu i palazzi?” (“Come fanno i palazzi a stare in piedi?”), turbato da questa poco credibile cosa: che solo essi durassero in piedi in un universo così visibilmente destinato a tremare, a spaccarsi, a scoscendere. Faceva di no col mento, deluso dalle spiegazioni, e andava a tastare e lisciare i mattoni delle facciate, scansandosi poi con un soprassalto improvviso. Una sera di festa lo vedemmo tra la folla, mentre guardava, trasecolato, a dieci metri dal suolo, un acrobata volteggiare in bicicletta lungo un invisibile filo sospeso».

Il matto è davvero matto? La sua domanda poteva sembrare ingenua, ma oggi si riveste di profonde risonanze simboliche. Comu tieninu i palazzi? L’equilibrio dovrebbe sempre suscitare stupore. Ogni costruzione umana, ogni accordo, ogni passo verso la comprensione reciproca è da accogliere con meraviglia, come un dono di cui rendere grazie. Biagio Re l’aveva capito. Il suo sguardo apparentemente stralunato aveva colto nel segno. Per raggiungere l’equilibrio non bisogna affannarsi a indagare le proprie esigenze, bensì alzare lo sguardo, avere il coraggio di pensare al domani. Ogni tanto, per gioco, magari mentre aspetto l’autobus, mi capita di tenere un ombrello in equilibrio sul palmo della mano (sempre che non ci siano altre persone intorno…). Se provate anche voi, vi risulterà subito evidente che finché fissate il palmo della mano l’ombrello continuerà a cadere; se alzate gli occhi verso l’alto, verso l’altro capo, allora troverete l’equilibrio.

Da quando ho cominciato a cercare tracce dell’11 settembre nella letteratura del passato, ne trovo dappertutto. È appena uscita per Bompiani un’antologia del poeta bulgaro Ljubomir Levčev (1935-2019), tradotto da Giuseppe Dell’Agata. In una lirica del 1980, intitolata Il pendolo di Foucault, l’autore esprime la sua invidia per gli alberi e per gli uccelli. I primi non hanno ali, ma sono ancorati nel suolo, «rimangono sempre fedeli / alla loro essenza». Invece «gli uccelli / restano / profondamente fedeli allo spazio / all’eterno movimento, allo slancio!». E gli esseri umani? «Cosa possiamo fare noi – / tutti noi, / che abbiamo radice e ala –». Levčev identifica nel «pendolo» dalla radice all’ala la fatica dell’uomo. Per me questa compresenza è segno anche della nostra unicità, della nostra capacità di rendere nuovo ciò che ci ha generato. Anche in questo caso, l’11 settembre ha colpito sia le radici, la stabilità che credevamo di avere in Occidente, sia le ali, la fiducia nel futuro. Tuttavia pur nella sofferenza, o forse proprio grazie alla sofferenza, oggi abbiamo la possibilità di mettere radici e ali più forti, a partire dalla maggiore consapevolezza della nostra fragilità, del nostro limite che si è fatto più evidente.

LEGGI ANCHE. 11 settembre 2021. «Dio salvi il mondo»

Concludo il giro tornando a Mario Luzi. Nell’ultima raccolta pubblicata in vita, Dottrina dell’estremo principiante (2004), proprio alla fine si trovano alcuni versi in cui, dopo avere preso atto delle macerie, il poeta ritrova la possibilità di una voce più vera:

Infine crolla
su se medesimo il discorso,
si sbriciola tutto
in un miscuglio
di suoni in un brusio.
Da cui
pazientemente
emerge detto
il non dicibile
tuo nome. Poi il silenzio,
quel silenzio si dice è la tua voce.

Quel silenzio è la tua voce. In questo “tu”, riferito contemporaneamente a sé stesso, al mondo, a Dio, il poeta ritrova un senso di fronte alla stanchezza, alla sfiducia. La parola vera, cioè la vita, è qualcosa che «pazientemente / emerge», che non dipende da noi. Noi possiamo riconoscere la nostra povertà, e capire che la nostra speranza non può fondarsi né sull’illusione di possedere l’equilibrio, né su quella di sorvegliare ogni straniero che entri a Zawīla, né tantomeno sulla solidità delle nostre radici o delle nostre ali. Dalle macerie, dalla sofferenza, dal nostro silenzio desiderante può nascere una voce di consolazione e di speranza: è la voce di un altro che improvvisamente diventa nostra. Forse oggi l’11 settembre per me è soprattutto questa consapevolezza, di anno in anno sempre più vivida: senza la voce di un altro, io non sono niente.