Elena Bono

Elena Bono. «Fa’ che non scriva mai nessuna parola inutile»

Il 29 ottobre di cento anni fa nasceva la grande scrittrice. La sua opera non è mai stata così viva. Ritratto di un'autrice irriducibile alle categorie del pensiero contemporaneo. E che ebbe il coraggio di affacciarsi sull'abisso del male assoluto
Silvia Guidi

Sembra periodicamente scomparire, l’opera di Elena Bono, ma solo per riemergere in contesti più vasti e imprevedibili, alimentando lontane – talvolta lontanissime – sorgenti di creatività e di bellezza. Solo per scrivere nei cuori e sulla pelle (in senso letterale, vedremo più avanti perché) dei suoi lettori. Non a caso Chiavari, la città dove ha passato gran parte della sua vita, le ha dedicato una fontana nella centrale piazza Matteotti; acqua fresca, sempre nuova, che continua a scorrere, attraverso percorsi impossibili da prevedere e pianificare a tavolino.

È passato un secolo dalla sua nascita (a Sonnino, in Lazio, il 29 ottobre 1921, figlia di un noto studioso di letteratura classica, Francesco Bono), ma la sua opera non è mai stata così viva. Grazie al passaparola tra amici, o anche tramite i canali più tradizionali. Tra i gioielli della scuderia Garzanti, negli anni Cinquanta (accanto a Pasolini, che ha tratto ispirazione dai suoi libri per molte scene del Vangelo secondo Matteo) i suoi testi teatrali vengono messi tuttora in scena in Francia; a Siviglia c’è una cattedra di italianistica che organizza convegni e giornate di studi su di lei; la sua città, in Liguria, ospita il Festival della Parola, un appuntamento che si rinnova ogni anno. Nel caso della ristampa del racconto lungo La moglie del procuratore è arrivato anche il caso editoriale, il boom di vendite e ristampe; è da poco disponibile in libreria anche un’antologia, Chiudere gli occhi e guardare che offre al lettore un assaggio della sua varia e vasta produzione poetica. Drammaturga, traduttrice, romanziera, ex staffetta partigiana che ha cantato con dura sobrietà gli eroi della resistenza (tra cui Bisagno, comandante amato e autorevole, seppur giovanissimo, degli oltre duemila uomini della divisione Cichero, di cui è in corso la causa di beatificazione), alimenta fuochi più che custodire ceneri, ma in modo discreto, personale, confidenziale, verrebbe da dire. Un dialogo per essere vero deve essere al riparo dai megafoni, anche in letteratura.

«Sono una scrittrice del sottosuolo» spiegava, non senza una buona dose di autoironia, in un’intervista pubblicata dal Corriere mercantile il 23 aprile del 1990. Terziaria francescana, non ha mai fatto mistero della sua fede e della sua «ossessione di rispondere in qualche modo alla domanda etica fondamentale dell’originale natura del bene e del male». Affascinata dalla libertà che regala una povertà radicale («canto quel tutto che s’acquista/ tutto perdendo», scrive reinterpretando il mito di Arione e il delfino) invita il lettore ad accogliere l’appello della realtà che gli viene incontro. In caso contrario, il senso non avrà un luogo dove nascere, perché la verità è sempre il risultato di un dialogo.

«Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo» la frase di Goethe descrive bene la genesi delle sue opere. Il teatro di Elena Bono è affascinante proprio perché radicalmente inattuale, irriducibile alle categorie di tanta parte del pensiero contemporaneo. I suoi testi destinati al palcoscenico sono sculture di parole dotate di un'energia quasi barbarica: personaggi a tinte forti, sbalzati nella pietra come bassorilievi medievali, figure scolpite con rapida violenza, drammi intessuti di molta azione e pochi psicologismi, che uniscono un impasto linguistico composito alla solennità di una sacra rappresentazione. L’effetto è straniante e poetico, quasi disturbante talvolta, carico com’è di una sovrabbondanza di energia che si rinnova ad ogni lettura e ad ogni replica: come se i dialoghi tra le allegorie dei vizi e delle virtù degli specula altomedievali venissero sommariamente tradotti e riadattati per una rassegna teatrale contemporanea, senza troppa attenzione ai filtri culturali chiamati in gioco. Specchi in cui il lettore può mettere meglio a fuoco il suo stesso viso, grazie alla pagina di un libro o alle immagini proiettate su uno schermo. Il più cinematografico dei suoi drammi è forse La testa del profeta, il film che né Rossellini, né Pasolini riuscirono a girare. Negli anni Sessanta l’appuntamento col cinema è stato mancato per un soffio: Rossellini aveva già pensato al cast (Kim Novak per Salomè e un’Erodiade con lo sguardo ironico di Bette Davis), ma poi il progetto è saltato – troppo cristiano secondo la produzione – mentre Pier Paolo Pasolini dovette incassare il no dall’autrice che temeva insormontabili incompatibilità di carattere artistico e ideologico. «Probabilmente avrebbe colto lo spirito dell’opera» – scriveva l’autrice ricordando questo incontro mancato – non tanto religioso quanto politico, una partita a scacchi giocata con freddezza: la posta in gioco è la testa di Giovanni».

Elena Bono (a destra) al Premio Borgnese. Palermo, 1953

Dai vertici del sinedrio ai notabili più potenti del tetrarca, sono in tanti a trarre vantaggio dalla morte del “mangialocuste”; con il suo arrivo in prigione, lo sfolgorio della corte si appanna e il lusso svela la sua natura di surrogato banale. «Ne Il Vangelo secondo Matteo la rievocò nella stessa luce in cui l’avevo rappresentata io», conferma la scrittrice, una danza quasi da educanda con una coroncina di rose sul capo». Sul palco, Salomè accenna i passi della Morte del cigno con grazia, ma nella sua danza c’è qualcosa di falso: è l’innocenza che diventa parodia di se stessa. Nel caso dell’opera della Bono forza e fragilità hanno significati opposti a quelli che siamo abituati a sperimentare. Una certa fragilità e passività è il requisito necessario per lo svilupparsi di una forza inaspettata, mentre il successo facile o il delirio di onnipotenza dato dal potere si rivelano strumenti di breve respiro e sempre stonati di fronte alla maestà della vita. Negli anni Cinquanta del Novecento come in questo scorcio di ventunesimo secolo. Una donna dalla cultura vastissima, che ha il coraggio di tornare bambina, davanti al mistero che la interpella, e di inoltrarsi nella notte scura dei mistici. «A Elena Bono bisogna riconoscere il coraggio di aver guardato in faccia il male assoluto», scriveva Elemire Zolla, parlando di uno dei suoi libri più inquietanti e belli, Una valigia di cuoio nero, secondo volume della trilogia Uomo e superuomo, in cui descrive la trasformazione di Tycho, da ragazzo “normale”, rampollo di una famiglia dell’alta borghesia tedesca, a SS crudele devota al culto della morte.

Il suo coraggio di attraversare il buio, di non censurarne la presenza, nella vita degli uomini, ha affascinato intere generazioni di lettori. «Il mio incontro con lei è dentro i versi di Alejandra Pizarnik: Della notte so poco, ma di me la notte sembra sapere, e più ancora, mi assiste come se mi amasse,/ mi ammanta di stelle la coscienza», – scrive la blogger Romina Arena in uno speciale uscito sull’Osservatore Romano il 28 settembre scorso, raccontando la sua personalissima esperienza di immersione nel fiume carsico delle sue parole. «Non sapevo alcunché della notte, non sapevo alcunché del mistero», continua Romina, «E per molto tempo mi è bastato. Per molto tempo ho pensato che l’esistenza fosse solo un atto pratico, come timbrare in orario, pagare le bollette prima che scadano, fare il cambio di stagione al momento opportuno. La notte era solo una porzione di tempo, il mistero una dimensione metafisica fuori dalla mia curiosità. Eppure, la notte e il mistero custodivano qualcosa per me. Custodivano qualcosa di me». La forma che ha la rivelazione non la si conosce fino a quando essa non si manifesta. «Non conoscevo la Bono, il suo era solo un nome che arricchiva il cartellone di un evento. Il messaggio che portava mi appariva come una presuntuosa promessa di salvezza e mi ripugnava la possibilità di leggerla», confessa Romina, «Ma lei sembrava sapere di me. Senza vendermi illusioni mi ha insegnato che va bene essere fragili, che va bene anche fallire. “Meglio soffrire tutto il dolore del mondo e non giacere come le pietre morte negli stagni. Piangere è meglio tutto il pianto dell’uomo e non con pallide bocche sorridere sotto gelide acque”».

LEGGI ANCHE - Cile. «In ogni cosa c'è un bene che sta per nascere»

Un incontro da non dimenticare, da scrivere (letteralmente) sul proprio corpo per non rischiare di farselo portare via dalla distrazione o dalla stanchezza, nella fiumana dei giorni. «È poco poetico e molto poetico insieme questo ricongiungermi a Elena Bono attraverso l’incarnazione dei suoi versi», conclude Romina, «Un esergo che porto sulla pelle come monito di concretezza: “Fa’ che non scriva mai nessuna parola inutile”, cita il tatuaggio sul mio avambraccio destro».