Pietà di Michelangelo dell’Opera del Duomo, nota come Pietà Bandini (particolare di Nicodemo), dopo il restauro; Museo dell’Opera del Duomo, Firenze (Foto Claudio Giovannini, courtesy Opera di Santa Maria del Fiore)

Michelangelo, che voleva nascere di nuovo

Uno degli ultimi capolavori del maestro toscano, la "Pietà Bandini" del Museo del Duomo di Firenze è reduce da un importante restauro. Scolpito nel marmo, anche il discepolo Nicodemo, copertina di Tracce di novembre
Marco Lapi

Un restauro senza segreti che ha rivelato tanti segreti. La cosiddetta Pietà Bandini - uno degli ultimi capolavori di Michelangelo Buonarroti dalla genesi e dalla storia travagliata, conservato nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - si è nuovamente rivestita di luce dopo il paziente intervento che l’ha liberata dal gesso residuo di un calco di fine Ottocento e dalla cera da cui era stata successivamente rivestita. Senza segreti, perché il lavoro della restauratrice Paola Rosa e della sua collaboratrice Emanuela Peiretti, sotto la direzione di Beatrice Agostini, è avvenuto in presenza del pubblico, in un cantiere aperto all’interno del Museo e che resterà ancora allestito fino al 30 marzo 2022 per consentire di esaminare da vicino, con delle visite guidate, i particolari della scultura e del lavoro eseguito.

L'opera prima e dopo il restauro (foto Alena Fialová, courtesy Opera di Santa Maria del Fiore)

Commissionati dall’Opera di Santa Maria del Fiore, con il finanziamento della Fondazione non profit Friends of Florence e sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Firenze e le province di Pistoia e Prato, i lavori si sono svolti a partire dal novembre 2019 sotto la responsabilità di Samuele Caciagli avvalendosi anche del coordinamento scientifico di Antonio Natali e Vincenzo Vaccaro nonché della consulenza scientifico e storico-artistico di Annamaria Giusti. Più volte interrotto a causa della pandemia, quello che si è appena concluso è il primo vero restauro cui l’opera è stata sottoposta da quando vi mise mano l’allievo Tiberio Calcagni, dopo che l’artista aveva rinunciato a proseguirla e l’aveva donata a un suo servitore. «La fine dei lavori è sempre una vicenda molto struggente soprattutto davanti a un marmo come questo che rivela tutte le inquietudini e il tormento di un grande artista», ha spiegato Natali, già direttore della Galleria degli Uffizi e oggi consigliere dell’Opera di Santa Maria del Fiore: «Ma è un restauro struggente anche perché, finalmente, ci rivela tutte le varie fasi di lavorazione di questo marmo che va dall’appena sbozzato al quasi finito e ora si vedono bene. Prima c’era una stesura ambrata che aspirava, pur non riuscendoci, a uniformare tutta la superficie, ora si apprezza ed è palpitante davvero».

Numerosi, come dicevamo, i “segreti” rivelati dall’intervento, a cominciare dalla provenienza del blocco di oltre due metri di altezza - le cave medicee di Seravezza e non quelle di Carrara, come finora si credeva - e la conferma dei difetti del marmo, citati anche dal Vasari, secondo cui «faceva fuoco» a ogni colpo a causa delle inclusioni di pirite ora scoperte. Ma è stata soprattutto la scoperta di numerose microfratture a far pensare che Michelangelo abbia abbandonato l’opera per l’impossibilità di proseguirla senza danni e non per l’insoddisfazione del risultato che stava prendendo forma e che lo avrebbe portato anche a tentare di distruggerla prendendola a martellate, delle quali infatti non sono stata trovate tracce. A meno che il Calcagni - cui si deve soprattutto la realizzazione della figura della Maddalena - non sia riuscito a cancellarle molto bene.

La Pietà Bandini restaurata (foto Claudio Giovannini, courtesy Opera di Santa Maria del Fiore)

Ma al di là di tutte le possibili ipotesi, l’aspetto più significativo che si cela in questa Pietà è da ricercare nel modo in cui Michelangelo la concepì e cominciò a realizzarla verso il 1547, quando aveva già oltre settant’anni, per poi abbandonarla nel 1555, al compimento degli ottanta. Un lavoro che aveva pensato come ornamento per la propria tomba, cui poté dedicare il poco tempo che gli restava dall’impesa della cupola di San Pietro, portata avanti nello stesso periodo. Non a caso la figura del membro del Sinedrio e discepolo Nicodemo, che sorregge Gesù nell’abbandono della morte, avrebbe il suo volto. Il volto di un uomo che sembra quasi sorgere dal corpo del Redentore cui chiede salvezza e resurrezione, che si sente prossimo alla fine della vita - anche se Michelangelo sarebbe poi giunto alla soglia dei novant’anni - e che si immedesima nel dottore della legge che aveva chiesto a Cristo come si potesse nascere di nuovo.

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Illuminanti, a questo proposito, le considerazioni avanzate dal direttore del Museo dell’Opera del Duomo, monsignor Timothy Verdon, che ha ricordato anche le maggiori difficoltà incontrate dall’artista nell’altro e ancor più abbozzato tentativo della Pietà Rondanini, oggi al Castello Sforzesco di Milano: «L’anziano scultore, che da sempre credeva di poter scorgere in ogni blocco marmoreo la statua perfetta che vi si potesse ricavare, scoprì a 80 anni di non possedere più tale magia! (…) Alla radice del problema, insieme alla vecchiaia, c’era forse anche una perdita di fiducia nell’arte come ragione sufficiente della sua vita». Tanto che, meditando sulla morte e sul giudizio divino, aveva scritto in un sonetto: «Né pinger né scolpir fia più che quieti / l’anima volta a quell’Amor divino / c’aperse, a prender noi, in croce le braccia». «Guardando ormai a Cristo e non all’arte - prosegue Verdon - era “naturale” che l’anziano maestro non riuscisse a completare le sue opere. O forse dobbiamo dire “soprannaturale”». E conclude: «La Pietà, arrivata a Firenze nel 1674, nel Duomo nel 1722 e al Museo dell’Opera nel 1981, è l’ultimo capolavoro di Michelangelo. E mentre oggi se ne parla, come di altre sculture del Buonarroti, come una “opera non-finita”, la dizione che più le compete è forse quella del XVI secolo, quando si diceva ancora: “opera infinita”».