Fëdor Michajlovič Dostoevskij (A.O Bauman/Wikimedia Commons)

Il mio amico Dostoevskij

A duecento anni dalla nascita, l’ex Primate anglicano Rowan Williams racconta come il genio russo ha cambiato il suo modo di vedere. Da "Tracce" di novembre
Giuseppe Pezzini

L’11 novembre ricorre il duecentesimo anniversario della nascita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Una delle figure più imponenti e misteriose della letteratura mondiale. Il giocatore, Delitto e castigo, L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov. Chi altro può vantare una simile rosa di capolavori? Quelli che lo amano, lo amano di un amore incondizionato, profondo e grato. Tra loro c’è Rowan Williams, già Arcivescovo di Canterbury, teologo di fama internazionale, critico letterario, scrittore e poeta. È considerato una delle menti più brillanti del mondo anglosassone e allo scrittore russo ha dedicato il libro Dostoevskij. Linguaggio, fede e narrativa (2008).
Quella tra Rowan e Fëdor Michajlovič è un’amicizia di vecchia data, che è cresciuta insieme a un costante interesse per la teologia ortodossa russa a cui ha dedicato la sua tesi di dottorato. Il titolo del suo ultimo libro è Looking East in Winter (“Guardando a Est in inverno”) e sembra un verso di una poesia autobiografica. Gli abbiamo chiesto come questo grande artista ha cambiato la sua vita e il suo modo di vedere il mondo. E perché vale la pena leggerlo – o tornare a leggerlo – proprio oggi.

Che amicizia è la sua con Dostoevskij?
È un grande dono poter parlare di questo scrittore che è stato per me un faro, un punto di orientamento. Mi sono imbattuto per la prima volta in lui quando ero ragazzo, leggendo citazioni in libri di altri autori. Intuivo che si trattava di uno scrittore attuale, coraggioso, realista, che era anche un cristiano profondamente radicato nell’Ortodossia. Tuttavia, sono riuscito a leggere I fratelli Karamazov solo ai tempi dell’università. Ho ancora l’edizione che ho comprato quando avevo vent’anni, in cui ci sono un paio di brevi annotazioni che rispecchiano le mie sensazioni di allora. Una è la frase che avevo sentito da un sacerdote: «Il Ventesimo secolo può ancora capire la lingua di Dio perché è la lingua del Calvario».

Rowan Williams (Foto Catholic Press)

Perché quell’appunto?
Rispecchiava ciò che sentivo mentre leggevo il romanzo. Il linguaggio di Dio è il linguaggio dell’umanità spinta all’estremo, della perdita e della sofferenza. Incontriamo Dio non solo in momenti di estasi e appagamento. Incontriamo Dio anche nei momenti di smarrimento e perdita, di riconoscimento del nostro tumulto interiore e, talvolta, del nostro vuoto interiore. Lo leggevo nei Karamazov e lo percepivo in me stesso e nel mio mondo. Gli anni che seguirono furono davvero il mio primo incontro con i grandi romanzi, ritratti di una società smarrita e confusa, e il modo in cui delle forze profondamente distruttive vi si possono insinuare. Così questi sono i romanzi che torno spesso a leggere. Poi ho anche letto opere precedenti come Memorie dal sottosuolo e il Diario di uno scrittore, quella raccolta di scritti molto eterogenea e piuttosto ambigua. Ma sono tornato a lui, come dice lei, come un amico, un amico molto impegnativo, critico, difficile, imbarazzante. È stato, comunque, un rapporto profondo.

Che cosa ama della scrittura di Dostoevskij?
Ha un dono straordinario nel ricreare, in una scena, dettagli indimenticabili. Possono riguardare l’aspetto di qualche personaggio, o un particolare della stanza in cui si svolge l’azione. Quasi a riassumere il terrore, o l’atrocità di una scena, con un minuscolo dettaglio apparentemente insignificante.

Ad esempio?
Il terribile, tremendo racconto nei Demoni di Stavrogin che si approfitta di una bambina. Stavrogin guarda, attraverso una fessura di una porta, la piccola impiccarsi. E in quel momento improvvisamente si ricorda di una volta che aveva guardato dalla finestra un ragno rosso, posato su una foglia di geranio. Questa nota, in qualche modo, cristallizza l’atrocità della scena come nient’altro potrebbe fare. È il dono del dettaglio apparentemente casuale. Vorrei poterlo fare anch’io quando scrivo. Un altro esempio è in Delitto e castigo: l’assassino Raskol’nikov sente il cuore straziarsi per la sofferenza di un animale. Questi piccoli dettagli che conferiscono una profonda fisicità al racconto, sono importanti. Ma forse c’è un aspetto ancora più interessante, che è quello evidenziato da Michail Bachtin, in uno degli studi più importanti sulla poetica di Dostoevskij. Bachtin fu il primo a notare che Dostoevskij lavora in modo dialogico e polifonico, facendo entrare in gioco diverse voci. Lo scrittore, nel racconto, concede a chi ha un’opinione contraria alla sua tutta la libertà possibile. Gli piaceva dire che sarebbe riuscito a sostenere l’ateismo meglio della maggior parte degli atei. Questa grande capacità immaginativa nell’entrare nella mente e nel cuore di un altro mi sembra al centro del suo successo. Ed è una cosa che ho sempre considerato preziosa. In un certo senso, è profondamente cristiana: come cristiani crediamo che Dio redime non parlandoci nel silenzio, ma abitando la nostra stessa voce umana. Sant’Agostino dice che Cristo parla con la voce di un’umanità peccatrice e perduta. La prende con sé, si immedesima nell’esperienza di un’umanità che è molto diversa dalla sua stessa, serena e ininterrotta, contemplazione del Padre. Dostoevskij cerca sempre di superare quella barriera per entrare nel cuore dell’altro. Dice quello che vuole dire, quindi, lasciando che voci differenti si parlino. Non parte con un programma narrativo prestabilito, ma cerca di abitare la voce dell’altro.

Lei è sacerdote, teologo, poeta e scrittore. Che cosa ha dato alla sua vita l’arte di Dostoevskij?
Come sacerdote ho sempre pensato che sia essenziale avere almeno un po’ di questa disponibilità, di cui ho appena detto, a immedesimarsi nell’esperienza dell’altro. Non per intervenire dall’esterno, ma per cercare di accompagnare nel mio cuore e nella mia preghiera la persona che chiede assistenza e consiglio pastorale. Questo atteggiamento è stato molto presente nel mio cuore di sacerdote. Anche come teologo mi piace sviluppare il mio pensiero in dialogo, desidero avere un interlocutore con cui coinvolgermi. A volte si tratta di una voce con cui sono profondamente in sintonia, altre volte con una con cui non lo sono del tutto. Ma è comunque un’altra voce, che tira fuori cose inaspettate dalla mia mente.

E come scrittore?
Mi viene da pensare al poeta anglicano George Herbert, che è quanto di più diverso da Dostoevskij possa esistere. Eppure anche lui ama dare voce all’altro. Gli piace che la sua poesia esprima alcuni aspetti di difficoltà, lotta e oscurità, che come sacerdote non sa bene come affrontare, ma deve dar loro voce, deve tirar fuori. Così, come poeta, sento che posso dar voce a sentimenti, percezioni che non sono necessariamente dove io vorrei, ma hanno bisogno di essere esternati per essere visti e compresi.

C’è qualche episodio dei romanzi che le è rimasto nel cuore?
Penso a quella scena all’inizio dei Fratelli Karamazov, il suo ultimo romanzo, il più lungo e, per certi versi, il più grande. Lo starets Zosima – il santo padre spirituale – incontrando la famiglia Karamazov, si prostra a terra davanti a Mitja, il figlio maggiore, che è un soldato dissoluto e ubriacone. Zosima gli tributa la massima venerazione perché vede in lui, profeticamente, la sofferenza che lo schiaccerà e lo ricreerà, e che, alla fine, lo renderà il vero centro morale, il culmine morale della storia. Quell’immagine del vecchio santo che si inchina davanti al soldato è molto potente. Poi, più avanti nel romanzo, penso ad Alëša, il più giovane dei fratelli che, vegliando le spoglie di Zosima, ha una visione straordinaria del volto radioso dello starets. E il santo gli dice che nell’Aldilà c’è una gioia e un’abbondanza inimmaginabili, e che il mondo risplende della gloria di Dio, e siamo tutti invitati al banchetto di nozze. Il titolo evocativo del capitolo è “Cana di Galilea”.

Le piace il Dostoevskij più “mistico”.
In realtà amo anche quei momenti nei Demoni dove viene fuori la sua immaginazione più tetra e quella che alcuni hanno chiamato “immaginazione cinematografica”, cioè la sua capacità di presentare una scena visivamente potente. Ad esempio: alla fine del romanzo, quando Pëtr, che è uno dei super-cattivi del libro, ha convinto uno dei suoi complici a suicidarsi. L’uomo è andato nella stanza vicina con una pistola. Pëtr attende il suono dello sparo, ma non accade nulla. Va per vedere che cosa sta succedendo con una candela in mano. È buio pesto e non vede nessuno. Poi, finalmente, si gira lentamente con la candela e vede l’uomo addossato al muro: ha gli occhi fissi nel vuoto. Pëtr lascia cadere la candela scioccato e l’altro gli prende la mano mordendogli un dito fino all’osso. È un momento di straordinaria intensità cinematografica, che contribuisce a evocare il terrificante, irrazionale abisso di male e distruzione che si dischiude nel romanzo. È una scena indimenticabile. Uno dei passi più scioccanti che Dostoevskij abbia mai scritto.

Che cosa insegna Dostoevskij a noi che viviamo in una nuova era in cui le vecchie categorie di comprensione del mondo non credo siano più valide? Che cosa offre al nostro mondo post moderno e segnato dalla pandemia?
La prima cosa è che Dostoevskij crede che la sofferenza non sia una punizione inflitta da Dio, ma sia sempre una strada per imparare, soprattutto qualcosa sulla fragilità che tutti condividiamo. Ognuno di noi non è protetto in quanto essere umano in sé, e quindi abbiamo bisogno di proteggerci a vicenda. Non siamo immortali, non siamo al sicuro dal dolore e dal fallimento. È importante, quindi, non idolatrare il successo e il controllo, ma pensare sempre a come approfondire la cura e la protezione reciproca. Penso che questo sia un concetto fondamentale in Dostoevskij e poggia sulla sua profonda certezza cristiana riguardo alla creazione e all’incarnazione. La seconda cosa è il tema che affiora più di una volta nei Karamazov nelle riflessioni di Zosima sulla sua vita, e nella scoperta di Mitja alla fine del romanzo: siamo responsabili e dobbiamo rispondere l’uno dell’altro. Ciò viene talvolta frainteso, come se Dostoevskij dicesse solo: «Siamo tutti colpevoli». Non è così, ma tutti siamo responsabili. La condizione del mondo in cui siamo è qualcosa di cui siamo responsabili, per cui, come direbbe Dostoevskij, abbiamo una “responsabilità illimitata”.

In che senso?
Non significa che dobbiamo cercare di assumerci la responsabilità di tutto e di tutti, ma che, ovunque ci troviamo, ci sarà un richiamo alla responsabilità che non possiamo decidere in anticipo. Non sappiamo da dove verrà, ma ovunque siamo c’è sempre un momento in cui Dio può intervenire dicendo: «Ti ritengo responsabile di questa situazione». Questo è il nostro mondo. Vi apparteniamo e siamo responsabili di questa condizione. Condividiamo la fragilità che ci circonda e quindi il nostro compito è la protezione, la cura e il rischio che ne consegue.

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Che libro consiglierebbe a chi vuole accostarsi a questo autore?
Innanzitutto direi a coloro che hanno paura di Dostoevskij ciò che viene spesso dimenticato dai lettori britannici e, sospetto, anche da molti altri lettori: si tratta di un grande scrittore comico. Non pensiamo a lui così perché racconta orrori e tragedie, in realtà è una grande penna satirica e i suoi ritratti dei vari tipi di vita laica e religiosa – per esempio, la straordinaria figura di Padre Ferapont nei Fratelli Karamazov, o la demolizione dei presuntuosi intellettuali liberali ne I demoni – sono divertenti e vogliono essere divertenti. Sono descrizioni molto profonde e tanto comiche da risultare indimenticabili. Ma se dovessi introdurre qualcuno a Dostoevskij per la prima volta, probabilmente lo rimanderei a Delitto e castigo. Non è da dove ho iniziato io, ma è forse il romanzo più accessibile. È la storia di un giovane inquieto che vive febbrilmente la realtà nella sua testa, al punto che le sue fantasie interiori lo portano a un terribile crimine e lui deve comprendere cosa ha fatto e le sue conseguenze. È circondato da figure grottesche e ancora una volta comiche e tragiche. Ha slancio, ha energia. Alcuni dei romanzi successivi richiederanno più tempo per essere accostati, ma questo è un buon inizio.

E per chi lo ha già letto e lo vuole riscoprire?
A loro consiglierei I demoni. Anche se non è un romanzo così profondo come i Karamazov, ha la profondità di un’analisi implacabile delle nostre abitudini auto-ingannatrici ed egoiste: il modo in cui una classe intellettuale può essere corrotta e volgarizzata, il modo in cui il fervore rivoluzionario e il desiderio di giustizia possono diventare una scusa per la violenza, in cui forze profondamente minacciose vi penetrano e creano una sorta di vuoto che risucchia le persone. È un romanzo molto sobrio, ma che, in un’epoca di post-verità e di nichilismo, dovremmo leggere e meditare.