Vedere è vivere. L'incontro con Sainz
Al Centro culturale di Milano l'incontro con l'autore di "Occhi che non vedono", il libro del mese suggerito da CL per novembre e dicembre. «Vogliono dirci qualcosa le cose? O accadono, e siamo noi a chiedere che la realtà ci parli?»«Forse bisognerebbe rivoltare il titolo. Me lo permetti?». Guadalupe Arbona Abascal, professoressa di Letteratura spagnola all’Università Complutense di Madrid, sorride, mentre si gira verso l’autore. Ma la domanda, in fondo, è seria. Occhi che non vedono, il romanzo di José Ángel González Sainz (appena ripubblicato da Bur-Rizzoli), è davvero un aiuto a capire come si fa a vedere, quali occhi servono per guardare la realtà come bambini, senza il velo di un’ideologia, qualsiasi essa sia. Nel libro di Sainz, quel velo è sporco di sangue, è la dottrina del terrorismo basco che risucchia il figlio e poi la moglie del protagonista, Felipe Díaz Carrión, uomo semplice e quindi tenacemente attaccato al reale, incapace di accettare la violenza cieca con cui si cerca di eliminare “il nemico”. Ma è un rischio che viviamo tutti, di continuo. Servono occhi che vedono, per vivere. Oggi ancora di più.
È di questo che si è parlato ieri sera, martedì 23 novembre, al Centro Culturale di Milano. In sala, con l’autore e con la Arbona, c’erano Stefano Ballarin, docente di Lingua e civiltà spagnola che ha rivisto la traduzione del libro (era uscito per Bompiani, nel 2013), e Flora Crescini, la moderatrice. Una serata che fa parte della Settimana dei Centri culturali della Diocesi. E prende il via dal percorso tracciato da Ballarin per presentare Sainz.
Ballarin racconta dei trent’anni vissuti in Italia, tra Venezia e Trieste, che hanno permesso all’autore di mettere tra sé e la sua terra «quella distanza che molte volte aiuta a capire». Cita una frase dello stesso Sainz che fa intendere molto: «Per me la scrittura è una ricerca. Avrei bisogno di scrivere tutto quello che vedo». E ne rilegge l’itinerario, a partire da Un mundo exasperado («primo tassello di una trilogia sul nichilismo»), parlando di «Letteratura con la L maiuscola», di personaggi che «ricordano i quadri di Hopper», di un legame stretto «con Juan Benet e soprattutto William Faulkner» e di una «odissea della disillusione» che in Occhi che non vedono trova l’espressione più acuta.
E proprio da lì parte la Arbona, raccontando un romanzo che quando è uscito, undici anni fa, ha fatto dire a molti «finalmente si racconta la verità». La verità su un periodo che ha sconvolto la Spagna: quello dell’Eta e dei cinquant’anni di attentati e di morti in nome del separatismo basco. «Sainz ha scovato le radici di quel dramma: l’ideologia vince quando si chiudono gli occhi, un cammino umano si compie quando gli occhi si aprono». E lo ha fatto invitando a dare «un giudizio carnale, agganciato ai personaggi».
Di quel mezzo secolo che ha lasciato «ferite ancora sanguinanti nel popolo spagnolo», in cui si vedevano «assassini accolti come eroi nelle piazze» e una società che «taceva perché non sapeva bene cosa fare con quelle immagini di vite spezzate», il libro offre un racconto attualissimo, perché capace di andare all’essenza: «L’ideologia approfitta della mancanza di uno sguardo limpido sul reale per mantenere il suo delirio di dominio». È una «patologia della ragione», dice la Arbona, che porta con sé la difficoltà di convivenza, l’impossibilità di guardare l’altro come un bene. E per essere combattuta, chiede una «battaglia al livello di un’instancabile attenzione a ciò che c’è intorno».
Sainz chiede proprio questo, di continuo. La Arbona ne legge alcuni passi (il dialogo tra Felipe e il figlio, accecato dal richiamo della violenza; o la descrizione di Asu, la moglie, risucchiata dallo stesso male che le stampa sul volto una perenne «smorfia di ripugnanza e sfida, rancorosa»). Sottolinea come Felipe offra «un’umanità che non si lascia vincere dal male. E il segreto è uno solo: aprire gli occhi». E aggiunge: «Sembra una cosa banale: a volte i mei studenti si arrabbiano, pensano che siano necessarie reazioni più grandi di fronte all’ingiustizia». Ma lui fa la cosa più importante: «Un cammino che permette di vedere».
È da lì che passa la «linea sottilissima» capace di fare la differenza tra la vita e la morte, il voler vedere la realtà o censurarla. Sainz, dice la Arbona, «ha capito come la questione fondamentale della cultura, oggi, sia aprire gli occhi. Accompagna verso l’apertura dello sguardo. Per questo è un maestro». E per non lasciare dubbi sulla portata di quella parola, cita un passo di Cervantes: Sancho che chiede a Don Chisciotte di non lasciarlo solo con la sua paura, e il Cavaliere della Mancha che gli risponde «fai dei tuoi occhi lanterne»: «È l’invito più interessante che si possa fare», chiosa la Arbona: «Il maestro non sostituisce l’allievo: lo incoraggia ad essere attento». E il libro di Sainz è proprio questo: «Un invito ad aprire gli occhi come lanterne, per godere la vita nel suo senso pieno».
Poi tocca a lui, all’autore. Flora Crescini, la moderatrice, gli chiede che cosa sia per lui quella «spina dorsale che ci siamo lasciati scappare, ma il cui solco continua a rimanere lì, vivo», citazione proprio di Faulkner messa nell’esergo del romanzo. E Sainz risponde confessando «imbarazzo, perché uno scrittore, a differenza di un filosofo, non ha un pensiero organico e problemi da risolvere». Per la letteratura, quello che c’è in gioco «è un’altra cosa: mantenere viva la ricerca, l’esplorazione di domande ed enigmi fondamentali della nostra vita. Non per risolverli, ma per impostarli di nuovo». Per questo le metafore, come quella «spina dorsale» di Faulkner, «vanno rispettate, non definite: aprono a un significato. È ogni lettore che deve compilare per sé quella casella». Per lui, quella spina dorsale è anzitutto «la dialettica, la tensione tra opposti» che c’è sempre nella realtà. E interroga, chiede, fa domandare, se uno guarda davvero.
Ma che ruolo ha la nostra libertà nel guardare? Perché c’è uno sguardo che può vedere e uno che, invece, impedisce di vedere, può restringersi a un punto fisso… «Guardare sembra la cosa più facile», dice Sainz: «Apri gli occhi, e fatto. Invece penso sia diventata una delle più difficili». Un po’ perché «siamo sommersi di immagini». E poi perché «non c’è scuola che ci insegni veramente a guardare. Si impara come quasi tutte le cose: facendola. Guardando. Cercando di vedere che cosa ho lasciato fuori, di vedere da vicino e da lontano, da una prospettiva e dall’altra. È una scuola che si inizia, ma non finisce mai. Come tutte le cose importanti della vita».
Sull’ideologia, poi, l’autore spiega quanto sia difficile «far capire all’estero il problema del nazionalismo», basco e non solo. Ha tante radici. Umane, prime che politiche: «Una delle parole fondanti della nostra cultura è l’“ira”», ricorda Sainz, citando l’Iliade: «La violenza a volte è “più dolce che il miele in bocca”. Bisogna rifletterci». Poi, c’è «il veleno del totalitarismo: vuole che gli altri non esistano». Per questo uno dei tratti del terrorismo è «la disumanizzazione delle vittime: togli loro i lineamenti della faccia, il nome. Li riduci a un numero». Altro elemento: solo negli ultimi anni «le vittime dell’Eta sono comparse con forza sulla scena e hanno preso il loro posto, centrale nella storia del nostro Paese».
Guadalupe Arbona torna sull’imparare a vedere: servono uomini che lo facciano, serve guardare a loro, imparare da loro e dalla realtà. «Un avvenimento può farci capire», conferma Sainz: «Una persona, una voce, possono far vedere. In teoria, tutta l’arte sta lì per insegnarci a vedere». Ma non è detto che accada, anzi: «A volte tutto ciò ci impedisce di guardare». Ci si ferma alle immagini, non si tocca la realtà.
La Crescini riparte dalle prime pagine di Occhi, dalla necessità dello «stupore» e da quella domanda che poi riemerge in tutto il libro, di continuo: «Vogliono dirci qualcosa le cose? O accadono, e siamo noi a chiedere che la realtà ci parli?». Quando le cose parlano con il loro linguaggio, noi cosa impariamo? «Meglio di quel brano, non saprei cosa dire», si schermisce Sainz: «Cerco di fare molta attenzione a non applicare alle cose dei movimenti umani. Le cose non vogliono, non pensano, non hanno desideri. Siamo noi che le interroghiamo. Un modo di interrogarle è cercare la bellezza in esse. Quello che c’è al di fuori di me me pide relaciones, mi fa sentire il bisogno di rapportarmi, di entrare in relazione alle cose. E tante volte vorrei che quel rapporto non finisse mai. Ma Il problema è sempre nostro».
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L’ultima domanda è sul finale del libro. È la bellezza a salvare Felipe, a fargli scegliere di vivere? «No. Non sarebbe sufficiente», risponde Sainz, deciso. E spiega: «Ho pensato molto a quel finale. Mi chiedevo: quest’uomo, che ha subìto uno smacco terribile dalla vita, una sconfitta feroce, dove può trovare i motivi per andare avanti? In quale sfera? Potevo trovare un motivo politico: fare o appartenere a qualcosa contro l’ideologia del figlio. Sarebbe stata la soluzione più semplice. Oppure, altro livello: la coscienza, la responsabilità personale. Ma erano risposte che mi lasciavano insoddisfatto». Ha scelto un livello più denso, profondo: «Quello religioso». Non in senso «ecclesiastico», precisa, ma originale, radicale: «È la comprensione che può avere in quel momento davanti alla montagna, il posto più alto della terra in contatto con la luce, il cielo. Lì Felipe può avere l’illuminazione della vita come un dono, gratuito. E il rapporto fondamentale con quel dono è la gratitudine, la pietas. È a questo livello che trova l’energia per fare un passo indietro». Guarda. Vede. E vive.