Matthias Stomer, Adorazione dei pastori, XVII secolo. Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica, Torino.  © Mario Bonotto/Photo Scala, Firenze

«Fatti di ciò che vedono»

Quasi un calco della realtà. I volti, le mani, e gli sguardi che «non si staccherebbero mai da quello che hanno davanti». Nel Volantone di Natale, l’Adorazione dei pastori di Matthias Stomer (da Tracce di dicembre)
Giuseppe Frangi

I pastori, prima di tutti. Erano stati loro gli immediati testimoni di quel che era accaduto, nella notte, in una delle grotte che si trovavano nei dintorni di Betlemme, grotte ben famigliari perché usate spesso come stalle. Non avevano esitato a dar credito all’angelo che era apparso loro. Infatti, come racconta Luca, «andarono senza indugio». Andarono e trovarono. Non potevano sapere, non potevano capire, come don Giussani dice a proposito di Giovanni e Andrea. Eppure quel che avevano davanti ai loro occhi non aveva bisogno di spiegazioni: «Avevano lì qualcosa che era come un paradiso».

Quante volte gli artisti hanno cercato di immaginare quell’istante di adesione immediata a quella realtà che si era palesata ai pastori in forma così marginale, ma insieme strabordante. Una sfida non scontata. Più semplice dar conto dell’arrivo dei Magi al cospetto del Bambino. Loro garantivano più appigli, con la solennità del corteo, lo sfarzo degli abiti, i doni preziosi così accuratamente pensati e confezionati. Con i pastori niente di tutto questo: gli unici ingredienti su cui far conto per la ricostruzione visiva di quella notte erano la semplicità e lo stupore. I pastori sono il trionfo del “poco”.



Non è un caso che in due secoli forti di certezze intellettuali come il Quattrocento e il Cinquecento gli artisti tendessero a ridurre questo sorprendente ribaltone delle gerarchie sociali a bella favola un po’ ammanierata. Nel 1600, secolo inquieto e travagliato, gli artisti invece ritrovano un’istintiva immedesimazione con quella situazione documentata dal Vangelo di Luca. È Caravaggio a far da traino col capolavoro dipinto nel 1609 per la chiesa di Santa Maria della Concezione di Messina (oggi custodito nel Museo Regionale della stessa città). Una Natività povera; una Natività sulla nuda terra, spogliata di tutti gli orpelli, segnata dall’impeto dei pastori che a stento trattengono il loro stupore e affetto, quasi riversandosi su Maria e il Bambino. Il Seicento è anche il secolo in cui opera un artista affascinante, di cui non si conosce l’identità, che è stato classificato come il Maestro dell’ Annuncio ai Pastori, proprio perché specializzato nel dipingere questo soggetto.

Sempre nel Seicento, lavora anche Matthias Stomer, artista di origini olandesi e operativo in Italia, tra Roma, Napoli e la Sicilia, certamente a partire dal 1630. Stomer è un caravaggesco dell’ultima generazione; un caravaggesco a oltranza, un duro e puro che era restato obbediente al verbo del rivoluzionario maestro anche quando il vento sembrava ormai soffiare in altre direzioni. Come scrisse con la sua impagabile chiarezza Roberto Longhi, Stomer è uno di quelli che restano ostinatamente legati alla grammatica caravaggesca anche quando ormai «spirava il barocco imminente e per queste cose la Roma trionfante della Controriforma non aveva più occhi».

Il nostro artista, invece che mediare con lo spirito del tempo, radicalizza il suo stile. Lo rende più semplice, oggettivo, al punto da dare forma quasi a un iperrealismo caravaggesco. Paga lo scotto di dover spostare il suo raggio d’azione lontano da quel centro del mondo che era Roma, per lavorare in particolare in Sicilia e poi anche in Lombardia. L’Adorazione dei Pastori è naturalmente il soggetto in cui si riconosce con più convinzione, tanto che ne realizza otto versioni, stando solo a quelle che sono arrivate fino a noi, in diverse varianti. In questa, oggi custodita al Museo di Palazzo Madama a Torino, Stomer sembra fare della sua pittura quasi un calco della realtà. I volti, le mani hanno un’esattezza che arriva immediata ai nostri occhi. Parlano con i loro sguardi, che non si staccherebbero mai da quello che hanno davanti. Parlano con le mani, ripiegate in gesti di commovente devozione e di trattenuto stupore per quello che hanno trovato. La luce irradiata dal Bambino esalta questo loro modo di essere lì senza psicologismi; non stanno semplicemente guardando quel «pezzo di Paradiso»: quello che hanno davanti agli occhi è diventata, infatti, la loro stessa consistenza. Sono fatti di ciò che stanno vedendo.