Carmen Pellegrino (Foto Leonardo Cendamo)

Carmen Pellegrino. Non chiedermi se sono felice

«Porto in dote il taglio che un’accetta possente ha lasciato dentro di me». La vita quotidiana, le sue contraddizioni e le domande su Dio. Da Tracce di ottobre, intervista alla scrittrice finalista al Campiello 2021
Luca Fiore

«Lo so che sembro venuta da una favola triste, ma porto in dote il taglio che un’accetta possente ha lasciato dentro di me. Negli anni che sono ugualmente passati, non ho fatto che cercare di ricucirlo, sebbene neppure sapessi di averlo». Con queste parole Cloe, la giovane donna protagonista de La felicità degli altri, l’ultimo romanzo di Carmen Pellegrino, tra i finalisti del Premio Campiello 2021, descrive se stessa, quasi scusandosi per il disturbo che arreca al lettore. Incontriamo questo personaggio a Venezia, mentre cammina nelle calli attorno a San Marco. È in compagnia del Professor T, docente di Estetica dell’ombra. Cloe ha un passato a dir poco burrascoso. A dieci anni era stata accolta da Madame e dal Generale, custodi della Casa dei timidi, un cascinale sopra una collina dove venivano accolti bambini feriti dall’incuria degli adulti. Poi un incendio mette fine a quel momento di serenità e i fantasmi della vita continuano a perseguitarla. Almeno fino all’incontro con il misterioso professore, con il quale, riesce ad attraversare la notte della vita.

Carmen Pellegrino, nata a Polla, in provincia di Salerno, classe 1977, è riconosciuta come uno dei talenti letterari degli ultimi anni. Dopo il suo romanzo d’esordio Cade la terra, ambientato in un immaginario borgo abbandonato, e i suoi studi da antropologa sulle tantissime località della provincia italiana rimaste inabitate, la Treccani ha coniato in suo onore il termine “abbandonologa”. Non si tratta, per la Pellegrino, di una curiosità sociologica. È un interesse per un fenomeno che è anche esistenziale, attorno a cui ruota la sua poetica.

Quel taglio che descrive Cloe è una ferita primordiale. È sua, ma non solo. È così?
Sì, purtroppo le quarte di copertina e anche un po’ le recensioni tendono a sottolineare soltanto la vicenda particolare: la vita di questa donna che viene da una famiglia disfunzionale. Da bambina ha visto il fratellino suicidarsi, subisce l’abbandono e tutti i suoi tentativi di rimettere insieme i cocci della sua esistenza sono falliti. Ma quell’“accetta possente” ha lasciato dentro di lei una ferita che è universale. Tant’è vero che, quando si parla del libro, si trascura un racconto che si intreccia con quello principale, che è quello della spedizione dei bambini. Ma per me è un aspetto fondamentale. È ispirato dalla leggendaria crociata dei bambini che, qualcuno dice, nel 1212 si siano radunati da tutta Europa per salpare verso la Terra Santa e liberare il Santo Sepolcro. Se c’è mai stata, è una spedizione che è finita molto male.

Quella che però racconta lei è un altro tipo di spedizione.
Di quella vicenda mi interessava recuperare l’aspetto dell’incamminamento. I bambini di cui racconto io si fanno carico di sé stessi e della propria ferita e vanno a portare la propria domanda su un monte. L’ho immaginato come il monte più alto, quello più vicino al cielo. Senza intermediari adulti, portano la propria domanda direttamente a Dio, la stessa di Ivan Karamazov: «Che cosa c’entrano i bambini con le sofferenze del mondo? Perché i bambini devono soffrire?».

Anche questo è un tema universale. Perché ha deciso di affrontarlo?
Quando ho iniziato a imbastire questa storia, era il 2017, avevo davanti agli occhi i volti dei bambini siriani che straziati dalla guerra, stanchi delle sofferenze, si suicidavano. Avevo letto anche di un villaggio in Ecuador, segnato particolarmente dall’emigrazione: tra il 2012 e il 2014 si erano suicidati bambini anche molto piccoli al ritmo di tre al mese. Erano i figli di chi partiva, di cui la comunità non riusciva a prendersi carico. Erano stati abbandonati. Ho letto studi in cui si domandava ai bambini che avevano tentato di togliersi la vita il perché del loro gesto. Spesso rispondevano che non volevano morire per sempre, ma soltanto smettere di soffrire. E si trattava di un malessere, anche qui, legato all’abbandono.

Ma i bambini della spedizione che racconta, alla fine, non pongono a Dio la domanda che intendevano fare all’inizio del cammino.
No, alla fine decidono di chiedere la salvezza per i propri padri. È una parabola che racconta di un mondo salvato dalla parte più giovane dell’umanità, quella per la quale non abbiamo più nessun riguardo, sulla quale si esercitano le violenze più scandalose. Un po’ come abbiamo visto fare dagli adolescenti guidati da Greta Thunberg che, al netto delle esagerazioni, si sono incamminati per le strade del mondo chiedendo salvezza, per il pianeta certo, ma anche per sé stessi e per noi.

Scrive che «questo libro è dedicato agli ammutoliti abitanti del buio, piccoli o adulti che siano, perché non c’è età che metta al riparo se non si viene visti né ascoltati, se non ci si sente almeno ogni tanto pensati». È questo l’abbandono?
Sì. Non necessariamente si tratta di abbandono fisico, come quello del bambino lasciato sul ciglio della strada come se fosse un cane. Ma anche quello del non sentirsi amati, del non sentirsi riconosciuti. Il non percepirsi come visibili. Cloe, che è la voce narrante, incarna tutti questi tipi di abbandono, ma questo in particolare: il sentire di non essere guardata. Ed è per questo che, a soli cinque anni, ruba una di quelle fotografie che si trovano dai robivecchi, in cui appare una donna che guarda. E lei, per la prima volta, si sente fissata da quegli occhi. Come se fino a quel momento mai avesse avuto il bene di uno sguardo accogliente, uno sguardo comprensivo che l’abbracciasse.

Questo è un libro che, fin dal titolo, ha a che fare con la felicità, che lei considera una parola ambigua.
Tutti vorremmo essere felici. Magari si potesse nascere con un bagaglio di felicità garantito per tutti: tu vieni al mondo e ti danno la felicità a cui hai diritto… Ma non è così. Siamo attraversati da sentimenti, stati d’animo, emozioni contrastanti. E quando parliamo di felicità ci riferiamo al benessere collettivo a cui uno dovrebbe partecipare dando il proprio contributo. Ma è una trappola. Perché cosa deve fare chi non ce la fa a corrispondere agli standard di felicità? Senza tirare in ballo il tema della depressione, mi riferisco a quelle fasi della vita di ciascuno in cui siamo presi dalla malinconia, dalla tristezza, dal fallimento. Sono momenti in cui preferiamo non farci vedere dagli altri, perché ci respingerebbero temendo di essere contagiati dal nostro umore. E quindi che cosa si fa? Ci si rifugia in casa. L’appartamento non è più soltanto il luogo della vita domestica, ma quello di una dimensione a cui ci condanniamo per paura di essere respinti. È la logica dei social network, dove si mostra la parte migliore di sé. Sempre senza complessità e senza mai tirare in causa l’ombra, che invece è parte di noi. Come nei dipinti di Caravaggio.

Ma non era il pittore della luce?
Quella che rifulge nei suoi dipinti la vediamo per contrasto. Sulla tela lui mette l’ombra. L’esplosione di colore viene fuori dal buio. Anche i suoi modelli sono furfanti, malfattori, cadaveri di prostitute… Luce e ombra sono entrambi parte di ciò che siamo, solo che noi tendiamo a rifuggire la seconda. Ci fa paura, chiama in causa il luogo oscuro, nostro e quello degli altri. Così si crea quella cosa aberrante che è il senso di colpa per lo stato d’animo. Già c’è il peccato originale e la fetta di debito pubblico che ci spetta alla nascita… Se ci incolpiamo anche di non riuscire a essere in linea con gli standard di felicità che la società ci richiede, diventa davvero difficile non soccombere.

Ma quando parla di felicità nel senso autentico, che cosa ha in mente?
Non doversi chiedere se si è felici oppure no. Non doversi vergognare di non esserlo. Non doversi sforzare di entrare in una definizione. Il sapere di poter attraversare nella propria vita dei momenti bui e di trovare degli occhi compassionevoli. Leopardi parlava di «uomini compassionevoli», che ti accolgono comunque, nonostante tu sia portatore di qualche malessere.

Nel romanzo è la figura del Professor T.
Sì, lui passeggia con Cloe per Venezia e le tiene compagnia. Non è che le risolve la vita, semplicemente la accoglie, così come lei è arrivata in città: frantumata, con l’identità dissestata, con quella tragedia che si porta dentro. Non fa come il marito di lei che le dice: «La tua vita mi intristisce». Tutti aspiriamo a essere felici, qualsiasi cosa possa voler dire. Ma per me può voler dire incontrare qualcuno che, nel momento in cui ti trovi sull’orlo di qualche abisso, o sei caduto in un vuoto, ti tenga compagnia mentre lo attraversi.

Nel libro si citano due versi di Friedrich Hölderlin: Là dove cresce il pericolo / cresce anche ciò che salva.
Quella di Cloe è una continua fuga, in cui il suo lupo interiore la porta a muoversi evitando sempre l’attraversamento del suo buio. Ogni volta che si avvicina al cuore di ciò che le è accaduto, alla ferita di cui dicevamo, si sente in pericolo. Sente di correre il rischio di andare in frantumi. Anche trovarsi a Venezia è l’esito di questa fuga, ma questa volta le cose vanno diversamente.

A un certo punto Cloe dice: «Credo in Dio che s’è fatto uomo, rinunciando alla sua onnipotenza. A questo Dio posso perdonare il silenzio, la mancata presenza là dove era atteso: questo Dio posso perdonarlo, come qualsiasi uomo sperduto che non sa più cosa fare».
Tutto il romanzo è pervaso da una sorta di spiritualità. Cloe vive un rapporto quasi fraterno con la figura di Cristo. Suo fratello, infatti, si chiama Emanuel, un bambino che ha qualcosa di sacro, anche nel senso che viene sacrificato. Lei sente una vicinanza con il Crocifisso che dice: «Padre, perché mi hai abbandonato?». È una spiritualità molto forte benché non matura. Siamo a un grado minimo, molto emotivo, ma che nasce dalla domanda che dicevamo, quella di Ivan Karamazov. E che appartiene un po’ a tutti i personaggi del libro.

Anche se è una domanda che, in qualche modo, viene superata.
Sì, alla fine emerge la possibilità di non accusare più Dio del suo silenzio. Non ci si limita più all’accusa a chi avrebbe potuto impedire il male e non l’ha fatto. C’è un passo ulteriore: il riconoscimento di una possibilità nuova che è nell’amore. C’è l’incontro con questo bambino, anche lui abbandonato, che è una sorta di custode di un cimitero, che rappresenta la soglia tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra il visibile e l’invisibile. Lei lo accoglie, lo porta con sé. C’è questo nuovo incamminamento che è nell’amore. Un camminare più pacificato, non so bene in che modo, ma con qualcosa in più. Perché Dio è nell’amore. Laddove si ricrea l’amore, lì c’è Dio.

Che cosa ha imparato scrivendo questo libro?
Il confronto con la complessità. I temi sono talmente enormi che, in un certo senso, è un romanzo non finito. Avrei potuto andare avanti ancora a scrivere. Perché qui si chiama in causa l’infinito, l’invisibile. Ne sono uscita con molte domande in più. Poche risposte, perché poi le risposte non credo si trovino scrivendo un libro. E neanche leggendolo.

Quali sono queste domande?
Quelle che tirano in causa Dio. Il bisogno inesauribile di Dio e la facilità, poi, con cui crediamo di poterne fare a meno. Eppure c’è questa esigenza che resta sempre insoddisfatta. Come la si concilia con la vita che deve essere portata avanti giorno per giorno, con le sue contraddizioni e i suoi sconforti? Una vita in cui Dio non c’è, per quanto tu lo chiami o lo cerchi. Resta in silenzio, resta in disparte, resta in quella sua dimensione... Come si accede a quella dimensione? Come posso cercarlo? Come posso farmi ascoltare da questo Dio? È una domanda perenne, che io mi sono sempre posta e penso continuerò sempre a pormi. E però…

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Però?
Crescendo, invecchiando, si arriva a dei compromessi anche con sé stessi e con la propria inflessibilità e con la propria domanda. Perché è l’interrogativo che, molto spesso, è mal posto. Il dito puntato che hai a vent’anni non è quello che hai a trenta e nemmeno a quaranta. Probabilmente a cambiare è il vigore con cui fai la domanda e la possibilità, alla mia età, di mettere in dubbio la questione stessa che poni.

In che senso?
A proposito di Auschwitz, qualcuno ha scritto che la vera domanda non è “Dov’era Dio?”, ma “Dov’eri tu?”. Da questo romanzo sono uscita consapevole che le domande non troveranno una risposta una volta per tutte e che, a volte, le domande possono cambiare.

Come fanno i bambini della spedizione.
Esatto. Dopo aver attraversato il buio.