(Foto: Dan Dumitriu/Unsplash)

I libri per l'estate per Gioventù Studentesca

"La crepa e la luce" di Gemma Calabresi Milite e "Davide di Gerusalemme" di Louis de Wohl. Gli inviti alla lettura

La crepa e la luce
La storia di Gemma Calabresi Milite è una vicenda di crepe.
Fin dal nome ne porta due, nette.
Tonino Milite è il nome del suo secondo marito, morto nel 2015.
Calabresi è il cognome del suo primo marito, Luigi, commissario di polizia ucciso nel 1972, in quegli anni di piombo per cui l’ideologia imponeva stragi e uccisioni, vendette e diffamazioni. Gemma Capra, all’epoca venticinquenne, rimaneva vedova con tre figli e il peso di molta opinione pubblica che ancora e ingiustamente vedeva nel marito il responsabile della morte dell’anarchico Pinelli.
La giovane sposa si presenta al funerale del marito vestita con un tailleur azzurro, quello di quando erano partiti per il viaggio di nozze. Un funzionario di polizia le suggerisce di cambiarsi, di mettere qualcosa di scuro, ma lei vuole salutarlo con addosso un vestito che il marito amava.
L’immagine riassume tante cose della storia di Gemma Calabresi, raccontata nel libro La crepa e la luce. Porta con sé la bellezza candida di una ragazza, giovane per essere madre di tre figli, giovanissima per crescerli da sola. Quell’azzurro porta con sé il rifiuto delle forme e il bisogno di affermare la vita.
Gemma era cresciuta con un’educazione cristiana, ma è solo dal tragico 17 maggio 1972 che quell’ipotesi di fede, ereditata per tradizione ed educazione, non è più una regola da inseguire, perché non «dobbiamo cercare» Dio, ma «è Lui che viene da noi», nella libertà nostra di accettare di essere amati.

La immagino prima del funerale, pensare ai suoi figli e ai giornalisti, alzarsi a fatica e scorrere i suoi abiti, scegliendo tra tutti l’unico capace di mostrare quella «sensazione fisica di immensa pace», con cui descrive l’incontro misterioso con Dio. La descrizione di quelle ore è strana, si sente che a raccontarle usa parole trovate negli anni, che hanno scavato nella sua memoria e scorrono lisce come acqua limpida. A sentirle fluire così pure, se ne comprende subito la grandezza, il tentativo di tradurre su carta un cammino di coscienza necessariamente carnale, che in lei dura tutt’ora. A 75 anni, dice, scrive questo libro come testimonianza di fede e di fiducia, «per raccontare l’esperienza più significativa capitata nella mia vita, quella che le ha dato un senso vero e profondo: perdonare». È lo scandalo di un mistero che invade il quotidiano: “Dio sul divano” titola uno dei capitoli, ma anche “Dio al piano di sotto” e “Dio che va da tutti”, perché o quell’abbraccio è reale, fino ad arrivare a sedersi sul divano, e può abbracciare tutti, dalle vedove agli ergastolani, oppure solo con i discorsi «ci si prende in giro» e il perdono è una parola vuota. Tutta la vita di Gemma è invece una «strada senza ritorno» dentro quell’abbraccio di pace percepito nelle ore più drammatiche della sua vita, quando ha osato pregare per la famiglia dell’assassino di suo marito.
Cinquant’anni dopo, quella storia di perdono si è ingrossata, le “gambe” della memoria hanno iniziato a muoversi per quella «infantile voglia di fare una corsa», a raggiungere tanti, a incontrare e testimoniare, gettando la luce in una crepa potenzialmente irrimediabile.
«Alla fine della mia notte c’era sempre un bagliore, ed era il ricordo di quello che mi era accaduto sul divano dei miei genitori: Dio era venuto da me. E anche se era successo una volta sola, dentro mi era rimasta la certezza che, per quanto mi dicessi e mi sentissi sola, io davvero sola non lo sono stata mai». Di questa luce si illuminano così i volti incontrati, che riempiono le pagine del libro: Licia Pinelli, i suoi studenti, la figlia di Ovidio Bompressi - l’uomo che aveva premuto il grilletto - i carcerati di Padova.
Quando si chiude il libro, e lo si gira sul retro, compare il volto di Gemma. Ha 75 anni. Gli occhi e il sorriso portano tutta la tragedia e il «cuore pieno» di cui parla. Indossa un abito blu.
Mattia Gennari



Davide di Gerusalemme
Che cosa ci sarà mai di utile per l’uomo tecnologico del XXI secolo nel romanzo sulla vita di un personaggio “datato” quanto l’Antico Testamento?
Steve Jobs, visionario fondatore di Apple, si rivolse nel 2005 ai laureati dell’università americana di Stanford con queste parole: «La morte… spazza via il vecchio per far spazio al nuovo. Adesso il nuovo siete voi, ma un giorno non troppo lontano diventerete gradualmente il vecchio e sarete spazzati via… il vostro tempo è limitato, per cui non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro».
Davide di Gerusalemme potrebbe essere un’interessante esemplificazione di questo inarrestabile processo storico, che vede l’avvicendarsi tra antico e nuovo. A prima vista, De Wohl racconta la vita di un giovane fiero e indomabile, che veste sempre i panni del protagonista in tutte le scene che è chiamato a calcare: con l’esercito regolare e quello ribelle, presso la corte del re, nelle chiacchiere del popolo e nel sentimento di tutte le donne che incontra lungo il suo impronosticabile itinerario. La sua forza, intelligenza e astuzia lo porteranno a guidare il nuovo e potente regno di Israele, destinato a vivere in pace e nella prosperità per molti anni, sopravvivendo alle feroci tensioni interne e giungendo, infine, all’ineluttabile “passaggio di testimone”. Fin da subito il lettore si trova immerso in un racconto adrenalinico (pur con qualche calo di tensione) e ricco di colpi di scena.

Ma grazie alla capacità di immedesimazione dell’autore ci si allontana via via dall’idea di personaggi antichi e polverosi e si incontrano uomini e donne decisamente vicini. A scavare bene sotto questa prima traccia si rinviene un filo più nascosto che emerge di tanto in tanto, come un fiume carsico, per poi tornare sotto il velo del visibile e continuare ad attraversare in silenzio lo scorrere delle vicende. È il filo di un imprevisto legame, la storia d’amicizia tra il Dio degli ebrei e il giovanissimo Davide, ultimo figlio di Iesse. Un non-protagonista agli occhi del mondo, poco considerato dai fratelli: «Che ci fai qui… Le capre non avevano più bisogno i te?»; irriso dal gigante Golia: «Dove sono le tue armi, nanetto?», eppure scelto da Dio come suo alleato, attraverso l’unzione del profeta Samuele. Tutta la vicenda umana di Davide è dunque l’incarnazione di questo dialogo tra la fedeltà del Signore degli eserciti – «Dio solo è il tuo alleato» gli rammenta Samuele – e l’ardente temperamento del suo eletto, capace tanto di slanci eroici che lo spingono a vincere «i suoi diecimila» nemici quanto di cadute indecorose. Questa vicenda dai tratti epici non è un copione stampato dall’inizio, ma un cammino percorso circostanza dopo circostanza e metro dopo metro. Senza ricorrere a comode scorciatoie (lo si vede chiaramente nel rapporto con il re Saul) o a identificare se stesso come misura di tutto, per Davide si svela come «ogni evento era stato intessuto e raccolto in una storia di rete invisibile, una trama superiore di cui lui era stato consapevole solo a tratti e che tuttavia era sempre presente». L’approfondirsi di questa consapevolezza lo condurrà alla soglia della vecchiaia, decidendo di liberarsi dalle cure ammalianti delle sue mogli per intraprendere la sua strada personale, quella del compimento del proprio destino. Nel frangente di questo passo finale (mai privo di intrighi e trappole) si realizza non solo l’ultima docilità all’alleanza a cui è stato chiamato, ma soprattutto maturerà in lui la fiducia nel suo Re, «la chiave del suo essere, la pietra miliare del suo regno». Davide potrà così sorridere e indicare il suo successore, non «il nuovo che spazza via il vecchio», ma la strada affinché quell’amicizia cresca e fiorisca anche dopo di lui, spalancandosi ad abbracciare nel tempo tutti gli uomini.
Andrea Mencarelli