(Foto: Punt Barcellona)

Punt Barcelona. «L’amore senza amicizia non ha futuro»

«Vivere è iniziare sempre, in ogni istante». Era questo il titolo della sesta edizione dell'evento culturale. I volontari, la figura di Enzo Piccinini, le testimonianze sulla malattia e il dialogo con lo scrittore Daniele Mencarelli. Il racconto
Elisabetta Pellegatta

«Il gusto per la vita è proporzionale all’impegno con l’ideale.» Questa frase del chirurgo italiano Enzo Piccinini ha finito per diventare il secondo tema del Punt Barcelona, la cui sesta edizione si è svolta nel weekend del 20-22 maggio, e che ha dedicato il suo incontro finale alla figura di questo medico impetuoso, grande amico di Luigi Giussani, la cui storia, raccontata nel volume Ho fatto tutto per essere felice è appena uscita in traduzione spagnola col titolo Todo lo he hecho para ser feliz. «Enzo lavorava, e il suo lavoro c’entrava con tutto e tutti», ha detto il sociologo Pier Paolo Bellini: «La sua vita e il suo lavoro erano una cosa sola, e lui li viveva così davanti a tutti. Per lui, lavoro e missione erano la stessa cosa. Gaudí non faceva distinzione tra visibile e invisibile. E nemmeno Enzo. Non c’era differenza tra ciò che faceva per Dio e ciò che faceva per il mondo».

Bellini usa la parola «rivoluzione» quando ricorda Enzo. Una rivoluzione in cui «uno più uno è uguale a infinito se siamo insieme con la prospettiva del destino. Perché senza di essa, uno più uno può essere uguale a zero. È in questa prospettiva che si introduce il sacrificio, che egli considerava una condizione necessaria per l’amore». Piccinini era molto provocatorio in questo senso, quando diceva che si poteva arrivare a venticinque anni di matrimonio e sbagliare se si viveva solo di affetto, perché «l’amore senza amicizia non ha futuro. Amicizia nel senso di guardare al Destino, perché Dio ci chiede di lasciar morire le piccole cose perché ne possano intervenire di grandi, rompendo così tutte le nostre misure». Rompendo anche la misura definitiva della morte, perché Bellini ci assicura che ancora oggi sta imparando da ciò che Piccinini gli ha mostrato. «Non bisogna avere paura di sbagliare quando si è amati. Questa è la dinamica che ho imparato da Enzo e di cui gli sono ancora grato, perché è una possibilità che ho sempre. Da quando è morto, questa dinamica continua a essere possibile per me ogni giorno. La mia gioia di vivere è proporzionale al mio impegno verso questo ideale. Se mi sottraessi a questo lavoro, sarebbe un crimine, perché toglierei gloria a Cristo nel mondo e perderei anche la mia gioia».

«L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante», ha scritto Cesare Pavese nei versi che sono stati stampati sulle magliette del centinaio di volontari che pullulavano nel Punt, con il loro lavoro silenzioso ma imponente, mostrando quella gioia discreta che ci permette sempre di costruire, essendo testimoni di qualcosa che nasce.
Un lavoro pieno di dedizione che ha risuonato in uno degli incontri più suggestivi di questa edizione del Punt. Non per la fama dei relatori, ma per il dramma che hanno mostrato, il dramma di vivere quotidianamente di fronte alla sofferenza, al dolore e alla morte, in una tavola rotonda intitolata "La sofferenza, punto di arrivo o cammino?".
Una domanda radicale con cui si sono misurate due dottoresse, Gloria Arnau, che ha vissuto la pandemia in prima linea nella sua clinica, e Paula Garrido, che ha descritto il suo lavoro nell’ambito delle cure palliative, ma che ha voluto guardare in faccia, pubblicamente, anche Josefina García, madre di famiglia, malata di SLA. La sua testimonianza, che non ha censurato i momenti di dolore e di sconforto, è stata l’occasione per testimoniare che il progredire di una malattia degenerativa non coincide comunque con la dissoluzione dell’esperienza umana, dimostrando che «il bene che si vive è più forte della malattia».

Secondo la dottoressa Garrido, lavorare nelle cure palliative implica una grande dose di umiltà e un bagno di realismo. «Per la mentalità medica, un problema che non ha soluzione crea un grande senso di impotenza, ma in questo caso non si tratta di risolvere un problema, bensì di accompagnare», un compito che ha molto più effetto di quanto sembri. Lo ha fatto capire chiaramente Josefina, che nel corso della sua malattia sperimenta a sua volta qualcosa di simile all’impotenza del medico che non è in grado di curare: l’umiliazione del malato che si sente costretto a chiedere aiuto. «Quando cerchi di evitare la sofferenza, in realtà stai evitando di vivere – dice Josefina –. Cercare di non passarci attraverso ti priva di opportunità che vanno perdute. Quando mi vedo costretta a chiedere aiuto per fare qualcosa, sto mettendo in gioco la mia fiducia. E ciò che inizia come un’umiliazione si rivela poi un privilegio. Non avrei potuto scoprire la dedizione, il sacrificio e l’amore di tutte le persone che mi accompagnano e che non avrei mai immaginato mi amassero così tanto e potessero fare tutto quello che fanno per me».
Parole che lasciano ammutoliti. «Un dolore così intenso da poterne scorgere la bellezza», dice Gloria Arnau, che descrive il periodo della pandemia come un calvario in cui, istante dopo istante, ti affacci sul Mistero, proprio come ciascuno dei presenti davanti alla testimonianza di Josefina.

L’altro grande tema affrontato al Punt Barcelona è stato quello dell’educazione dei giovani, con la testimonianza dello scrittore Daniele Mencarelli. «Abbiamo costruito sistemi che ci hanno portato a non guardare. Ormai non guardiamo più nulla. Invece di guardare la realtà, ci mettiamo a giocare con il cellulare o a perdere tempo. Prima lo sguardo era la premessa per amare l’altro, e accadeva sempre, anche con gli sconosciuti». Un singolare rimprovero, dato che passiamo la vita a incrociare persone che non guardiamo, senza alzare lo sguardo dallo schermo che ci intrappola e ci distrae da ciò che, fuori, continua ad accadere.
Questa mancanza di abitudine al gesto del guardare ha fatto sì che, senza rendercene conto, abbiamo incominciato a guardare i giovani «non per quello che fanno bene, ma per quello che fanno peggio. È una questione pratica», sottolinea Mencarelli. In questo senso, lui si era ritrovato immerso in un universo patologico in cui anche le domande che turbavano il suo cuore si riducevano a sintomi di qualcosa che andava corretto. «Per me l’incontro con la poesia è stato fondamentale, ha ribaltato tutto il mio dolore, mi ha permesso di difendermi dalle istituzioni, che categorizzavano queste domande come qualcosa che dovevo semplicemente risolvere secondo i canali stabiliti. Ma io ho vissuto intensamente il conflitto tra il tutto e il nulla, perché ho fatto un’esperienza terribile del nulla. O siamo uno sputo nell’universo oppure siamo generati. Io vivo in questo duello, e devo viverlo costantemente. O tutto o niente. È un duello vertiginoso, ma tremendamente umano, un duello che ti cambia la prospettiva perché ti mette alla ricerca della salvezza, che è qualcosa che non ci diamo mai da soli».

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Mencarelli ha concluso mostrando che questa salvezza viene sempre da fuori: dalle cose e dalle persone che incontriamo. È questo che ha sempre voluto raccontare in tutto ciò che ha scritto. «Tutto ciò che ho ricevuto dai miei genitori è diventato vero negli incontri che ho fatto, e ora lo comprendo meglio di qualche anno fa. L’altro è un sostegno di fronte a una prova in cui non so quale sia il mio bene. Nei miei libri cerco di spiegare gli incontri che mi hanno portato fin qui, a essere quello che sono: qualcosa accade intorno a te e ti svela in una luce diversa ciò che sei e ciò che vuoi trasmettere. Possono essere incontri silenziosi, della durata di pochi secondi, ma ti svelano l’avventura che più ti interessa nella vita. Un’avventura come la narrano i Vangeli, l’Avventura, con la maiuscola, perché non smette di accadere, perché non si può vivere del passato. Si vive in gerundio: amando, scoprendo, vivendo…». In ogni istante, una nuova nascita, ora.