Antony Gormley (Foto: Luca Fiore)

Antony Gormley. Corpo a corpo con la coscienza

Come Lucio Fontana, cerca la rappresentazione dell’assoluto. In 40 anni di carriera ha provato a raffigurare lo spazio dell’interiorità. Su "Tracce" di ottobre, dialogo con il più importante scultore inglese vivente
Luca Fiore

Assomiglia un po’ a T.S. Eliot, un po’ a Roald Dahl, un po’ a Roger Moore. Sarà come gli scende il naso, o la fronte alta. Forse il taglio di capelli. Colto, garbato, elegante. Antony Gormley, il più importante scultore inglese vivente, porta scritto in faccia il suo essere britannico. Classe 1950, studi di Archeologia, Antropologia e Storia dell’Arte a Cambridge. Accademia d’arte a Londra. Un viaggio di due anni in India a metà degli anni Settanta. Il suo lavoro, premiato nel 1994 con il prestigioso Turner Prize ed esposto nei maggiori musei del mondo, è una riflessione sulla forma del corpo umano e le sue relazioni con lo spazio. La sua opera forse più iconica è Angel of the North (1998), realizzato per la città di Gateshead, nel Nord dell’Inghilterra, lungo l’autostrada A1. È un colosso in acciaio di forma umana, alto venti metri che, al posto delle braccia, presenta due ali larghe cinquantaquattro metri. Una presenza enigmatica nel paesaggio, come presenze sono le sculture che Gormley ha spesso posizionato in scorci suggestivi in riva al mare o sopra i palazzi cittadini (nel 2019 una di queste è stata collocata in cima alla Loggia dei Lanzi a Firenze).

''Rise'', 1983-1984, esposta a Venezia (Ela Bialkowska, OKNO Studio / Courtesy the artist and Galleria Continua)

Lo incontriamo prima dell’estate e ci racconta che il giorno di Pasqua, il 17 aprile, si trovava a Venezia per allestire la mostra “Lucio Fontana / Antony Gormley” al Negozio Olivetti in Piazza San Marco. Pur non essendo più credente, ha voluto partecipare alle celebrazioni solenni nella Basilica di San Marco, restando colpito da un mosaico: «A sinistra, guardando l’altare, c’è la scena dell’incredulità di San Tommaso, in cui l’apostolo fa per toccare la ferita del costato di Cristo. Ho notato che, mentre le altre ferite, ai piedi e alle mani, erano disegnate come un cerchio, quella a cui si avvicinava il dito di Tommaso era quadrata. E ho pensato al Quadrato nero di Kazimir Malevič».

È una suggestione che gli viene dal confronto con il tema dell’assoluto, basso continuo del suo lavoro, e che ha approfondito negli ultimi anni grazie al confronto con l’opera di Lucio Fontana. Gli suggeriamo: avviene come nel dipinto di Caravaggio sullo stesso episodio evangelico, in cui la ferita di Cristo sembra anticipare i tagli di Fontana. Gormley conferma e rilancia: «È così anche nel Guercino dei Musei Vaticani, ma ancora di più nella scultura del Verrocchio a Orsanmichele. Sono tutti suoi anticipatori».

Per la mostra a Venezia ha avuto accesso agli oltre 4mila disegni dell’artista italiano. Tra questi lo colpiscono gli appunti per il “Manifesto tecnico dello spazialismo”, che Fontana presenta nel 1951, proponendo un’alternativa al modo in cui, fino ad allora, l’arte occidentale aveva affrontato il problema della verosimiglianza. Non si trattava più di seguire la prospettiva geometrica, basata sul punto di vista di un uomo che poggia i piedi per terra. L’artista chiede di fare un balzo, che è concettuale, e guardare il mondo dallo spazio. Una visione cosmica, quasi vent’anni prima delle foto del nostro pianeta scattate dagli astronauti in orbita attorno alla Luna. «Fontana prende una tela, che è il luogo classico della rappresentazione, e vi incide un taglio. Negando, in un certo senso, l’idea di mimesi e aprendo la via alla rappresentazione dell’infinito». Per Gormley questo approccio è opposto e complementare al suo: «Il mio modo di riconoscere la verità cosmica di un universo in continua espansione è quello di uscire dalla zona dell’apparenza percettiva. Basta chiudere gli occhi e ci si trova nell’oscurità, in uno spazio che non ha oggetti, dimensioni o età. È il luogo della coscienza, dal quale tutto nella società contemporanea prova a sottrarci».

''Hold (Pieta)'', 2019, nel giardino di Galleria Continua di San Gimignano (Ela Bialkowska, OKNO Studio / Courtesy the artist and Galleria Continua)

Tutta l’opera di Gormley, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, è il tentativo di raffigurare questo spazio della coscienza. Tra le prime prove di tale sforzo è Rise (1983-1984), una scultura che rappresenta lo spazio occupato dal corpo dell’artista: un calco realizzato su di sé e racchiuso da un involucro di piombo, sopra il quale sono tracciate linee ortogonali come su un mappamondo. L’opera è supina e le spalle della figura sono leggermente distaccate dal pavimento. «Ciò che volevo mostrare è il buio che è dentro di me». Un’opera molto simile a Rise è Untitled (for Francis), del 1985, conservata alla Tate Modern di Londra. La figura umana, in questo caso, è in piedi, con le gambe leggermente divaricate e le braccia tese che mostrano il palmo della mano. Su piedi, mani e costato si aprono dei fori. «Quell’opera nasce dal fallimento di Rise», spiega l’artista: «La gente non capiva che cosa volessi comunicare e diceva che era una mummia noiosa. L’idea della nuova opera mi è venuta vedendo il San Francesco nel Deserto di Giovanni Bellini, alla Frick Collection di New York. Mio padre era un fan del Cantico delle Creature e dei Fioretti… Così ho ripreso la posizione del santo e ho praticato dei buchi che hanno la forma di occhio. Non è un’immagine cristiana, ma è un gesto di apertura al mondo e allo spazio». Nel 2012, invece, realizza Model un’opera monumentale: un edificio a forma di corpo umano, lungo 37 metri e formato da 22 parallelepipedi di metallo. Il visitatore può entrare e muoversi dentro la scultura, facendo l’esperienza di trovarsi nello stesso spazio infinito contenuto dentro a Rise o a Untitled (for Francis).

Un altro modo di declinare lo stesso tema, ed è forse quello per cui Gormley è più conosciuto, è ottenuto con l’uso delle linee ortogonali che, anziché segnare la superficie di un involucro, assumono una consistenza propria e vanno a occupare il volume dello spazio interiore. Non sono scheletri, ma strutture architettoniche che rappresentano il luogo intimo della coscienza. In un gioco paradossale, l’artista usa gli assi cartesiani per rappresentare una dimensione in cui la logica cartesiana perde di significato. Al piano superiore della mostra di Venezia, si trova uno degli esemplari più iconici di questa serie, Subject III (2021), un uomo inginocchiato a ridosso della parete. «L’idea su cui si fonda il mio lavoro - spiega Gormley - è che la coscienza abita il corpo e il corpo abita l’architettura e io uso la sintassi di quest’ultima per descrivere il nostro organismo come uno spazio di trasformazione. Il nostro corpo è l’arena dell’esperienza e della coscienza. Il mio è un invito a prendersi il tempo di riscoprire questa dimensione. Non mi interessa che chi guarda sia solo spettatore, ma che partecipi dell’opera. Per questo, quando è possibile, realizzo lavori nei quali si può entrare e interagire».

''Space'', 2021, all'ingresso di Galleria Continua a San Gimignano (Ela Bialkowska, OKNO Studio / Courtesy the artist and Galleria Continua)

È il caso di Frame II (2021), la grande opera attorno alla quale ruotava “Body Space Time”, la mostra appena conclusasi alla Galleria Continua di San Gimignano e che occupava l’ex platea del piccolo cinema, sede dello spazio espositivo. È una struttura composta da telai di alluminio che si compenetrano. L’intreccio delle linee evocava, nelle intenzioni di Gormley, la terza posizione della sequenza di preghiera islamica, nella quale l’orante appoggia a terra ginocchia, avambracci e testa. «È la posizione che potremmo associare a quella dell’orante inginocchiato nel culto cristiano. È la postura che esplicita che l’uomo dipende dalla volontà di Allah e dice anche della sua connessione con la terra. Ed è pure la posizione in cui il corpo occupa il minimo spazio possibile. L’opera è aperta e, anche se ha le dimensioni di una casa, non può essere un rifugio. Si colloca dove una volta c’era la platea, dove il pubblico sedeva in silenzio, aspettando che iniziasse lo spettacolo. Era il luogo dell’attesa e dell’attenzione».

Tra le opere realizzate di recente, c’è Hold (Pieta), 2019, che sembra alludere a un abbraccio, quando, solitamente, le sculture di Gormley rappresentano un solo corpo alla volta. «Sì, si tratta di un abbraccio. Ma non ha niente a che fare con un’idea romantica». L’artista prende lo smartphone e ci mostra una fotografia che lo ritrae nudo mentre si aggrappa a una sua opera a forma di corpo umano a grandezza naturale, formata da parallelepipedi di ghisa e acciaio. «È una riflessione sul rapporto tra lo scultore e la scultura. Penso abbia a che fare con l’ossessione di Michelangelo per l’immagine della Pietà, il simbolo cristiano dove la madre di Dio regge il corpo morto che lei stessa ha generato. Penso sia la metafora della relazione tra scultore e l’inerzia della materia. Tra energia e stasi. In me c’è l’intenzione di creare un equivalente dell’esperienza umana che, in un certo senso, non può che contemplare anche la morte». L’ha esposta per la prima volta durante la pandemia, quando era negato il contatto tra le persone. «Se fosse solo il tentativo di illustrare un’esigenza legata al periodo del Covid, sarebbe un fallimento completo», spiega l’artista: «Desideravo che fosse una meditazione sull’esperienza della scultura, nella quale un corpo vivente tenta di imprimere a un pezzo di materia inerte la possibilità dell’empatia e del sentimento».

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Gli chiediamo come mai, nel parlare delle sue opere, fa spesso riferimenti a concetti o realtà legati alle religioni. «Guardare al lessico delle posizioni del corpo ci permette di avere accesso, in un certo senso, ai vari tipi di cosmologia, alle concezioni del mondo che hanno le religioni del deserto, piuttosto che il buddismo o il taoismo. E tutti questi esempi di posture sono manifestazioni di uno stato di contemplazione, che è l’atteggiamento che abbiamo bisogno per fare arte. Sono posizioni che noi associamo all’idea di preghiera, meditazione o supplica. Non sto dicendo che dovremmo tornare alla visione teistica del mondo, ma che lo spazio dell’arte condivide con alcune pratiche e tradizioni religiose l’idea che noi siamo nel mondo ma non siamo del mondo». L’arte è dunque l’ultima religione possibile in un mondo secolarizzato? «No, questa è una semplificazione che distorce ciò che sto cercando di dire. Nell’epoca tardo capitalistica in cui siamo, nella quale i valori sono collassati nel solo valore monetario, l’arte è importante perché è uno spazio di contemplazione e riflessione che, in quanto tale, va protetto».