Andrea Soffiantini porta in scena Conversazioni con Testori (foto Fabio Zavattieri)

Testori. In scena contro l'astrazione

Andrea Soffiantini, attore testoriano per eccellenza, porta al Teatro Oscar di Milano i dialoghi tra Doninelli e il grande scrittore di Novate. «Per me è l'occasione di fare memoria di cose presenti»
Luca Fiore

Conversazioni con Testori raccoglie i dialoghi tra Luca Doninelli e il grande scrittore di Novate Milanese durante gli ultimi mesi della sua vita. Si tratta di un libro fondamentale per comprendere il vasto universo di una figura geniale e poliedrica. Arte, letteratura, teatro, critica di costume, ma anche il racconto degli affetti, della famiglia, degli amici… Il botta e risposta dà conto di una visione del mondo vertiginosa. Questo testo, in occasione del centenario della nascita di Testori, è proposto in forma di spettacolo, prodotto dal Teatro degli Incamminati, per la regia di Paolo Bignamini che va in scena al Teatro Oscar Desidera di Milano tra il 25 e il 28 maggio. Sul palco, da solo, uno degli attori testoriani per eccellenza: Andrea Soffiantini. Con lui abbiamo parlato dell’eredità di un grande intellettuale, artista e amico.

Che cosa significa per lei mettere in scena questo testo?
È stato un regalo che mi ha riempito di gratitudine. Mi ha dato la possibilità di mettere un po’ di ordine nella mia memoria. Perché è una memoria di cose presenti. Questo è stato possibile grazie alle qualità di scrittore di Doninelli. Sono un attore che riesce a essere ordinato soltanto se dice le parole di un altro. Io entro in scena, dico “grazie” e chiedo “scusa” per quello che sta per avvenire, per le parole che sto per dire, e poi inizio…

Perché dice “memoria di cose presenti”?
A più di quarant’anni di distanza, porto ancora in scena il Factum Est. Non più nelle chiese, dove era nato, ma nelle aule universitarie, in piccoli teatri. Tutti gli anni al Rosetum a Milano come appuntamento quaresimale. E poi c’è Casa Testori, a Novate, dove lui è nato e vissuto. La si può vedere passando con il treno delle Ferrovie Nord. È qualcosa di presente, un punto di riferimento importante e un luogo che è bello frequentare. E in Conversazioni con Testori i temi del dialogo tra i due scrittori sono davvero di grande attualità.

Qualche esempio?
L’astrazione. Testori ha combattuto contro un potere che crea bisogni astratti per costruire uomini astratti, incapaci di sentimenti veri. Lui ha usato tutti gli strumenti che aveva a disposizione, gli articoli di giornale, la critica d’arte, il teatro e la narrativa, per opporsi a questo modo di concepire l’uomo e il mondo.

Perché è un tema d’attualità?
Io vivo a Forlì, al centro della zona devastata dall’alluvione. Ora vediamo che l’emergenza è trattata per quello che è, la gente si muove, si impegna. L’energia dell’uomo è ancorata alla realtà. Ma col tempo, anche se i segnali già si vedono, ci si sposterà sui distinguo, sulle polemiche, sulle astrazioni. E lì diventerà ancora più dura.

Ma che cos’è l’astrazione per Testori?
È la grande dimenticanza di Dio. “Dio” è il vero nome della realtà. Se lo facciamo fuori, le cose della vita diventano irreali. E lui dice: dovrebbe esserci almeno il dolore per averLo dimenticato, già questo ci farebbe capire meglio la vita. È un allarme che lui lancia in modo continuato, con forza, lucidità e profondità. Senza questa memoria, tutto diventa “per finta” e inutile.

Il libro di Doninelli racconta anche una storia di amicizia.
Sì, quella degli universitari che lo andarono a trovare dopo l’articolo sul Corriere scritto in morte di Aldo Moro, La realtà senza Dio. Era il 1978. Erano giovani che non sapevano nulla di Testori. Mai sentito parlare dello scandalo dell’Arialda, del sodalizio con Luchino Visconti e con i grandi attori, di tutto il suo lavoro sulla storia dell’arte lombarda… Furono mossi dalla curiosità di conoscere l’autore di quelle parole: chi sei tu? Fu l’inizio di un’amicizia disinteressata. Poi venne la sorpresa di scoprire il suo grande passato. Ma la scintilla, fu una scintilla di amicizia. Lui scoprì di avere un luogo, le persone legate a Comunione e Liberazione, in cui era accolto per quello che era. Il suo dolore, le sue cattiverie, il suo essere incasinato non erano messi in primo piano. Tutto veniva accolto e trasformato. Anche l’omosessualità è un tema toccato nello spettacolo.

Soffiantini in scena (foto Teatro degli Incamminati)

Come?
Per lui il punto non era tanto l’emarginazione, l'estromissione dal novero degli uomini, l’apartheid. Ma, di nuovo, l’astrazione. Lui considerava astratta la stessa parola “omosessualità”. Non usa mai il termine “omosessuale”, parla di “rapporti”. Dice: «In questi rapporti», perché sono relazioni di amore. E come dentro qualsiasi rapporto, alberga una tristezza sconfinata. Ma se uno accoglie, con carità, questo abisso, questo rapporto magari sbagliato da tragedia si trasforma in dramma che può offrire qualcosa anche agli altri. Così non lo si riduce a mera rivendicazione o vergogna da nascondere.

Nello spettacolo si parla molto anche di arte, che è un aspetto forse meno conosciuto – anche se centrale – nella vita di Testori.
Come per Roberto Longhi, anche per lui l’arte era una questione di vita o di morte. Quando Longhi parlava di Piero Della Francesca o di Caravaggio, era come se scrivesse di sua mamma, di un’amante, di un figlio, del cibo. E c’era sempre al centro la materialità dell’opera.

E lei? Che rapporto ha avuto con lui?
Veniva spesso a Forlì e chiamava il direttore della Pinacoteca per farsela aprire e noi dietro a lui. Si piantava, con le mani dietro la schiena, davanti a queste tele del Cagnacci, La gloria di San Mercuriale… E stava lì a guardare. Scorreva il tempo, passavano i minuti. E lui lì con gli occhi all’insù, quasi in adorazione. A noi, dopo un po’, veniva da ridere… Ma poi, iniziavamo a fare come lui e cominciavamo a vedere quel che prima non notavamo: gli angeli dipinti in un certo modo, le bocche disegnate con tanta cura, i cieli e le nubi… Guardavamo lui che guardava. Ci sentivamo coinvolti. Poi io volevo fare l’attore e un giorno gli ho detto: «Maestro, con il teatro mi piacerebbe dire la vita, ma quando ci provo riesco solo a balbettare, non so che dire». Lui, dopo una settimana, è tornato da me con un testo teatrale che cominciava proprio con un balbettio. Era Factum Est. Il monologo di un feto, un essere che cresce in un grembo, che riusciva a pronunciare la parola “Cristo” dopo essersi allenato: «Cri-Cri…». Testori con me fu paterno e magistrale, mi accolse come un figlio e, dal punto di vista del mestiere, con questo testo mi offrì una strada.