BergamoIncontra. “Dov’è la vita piena a cui aspiro?”
«Una comunione vitale», per usare le parole del vescovo Beschi. Cronaca della due giorni nel capoluogo orobico, con centinaia di persone che hanno partecipato a incontri, spettacoli e molto altro“Dov’è la vita piena a cui aspiro?”. È la domanda piantata al centro di BergamoIncontra di quest’anno, due giorni, 10 e 11 giugno, di dialoghi, musica, una mostra, tutta roba ricostituente per «gente esausta» come ha scritto il poeta basco Karmelo Iribarren «con lo sguardo per terra, che si interroga sulla vita, quella vera. Perché non può essere che sia solo questo».
Una manifestazione cresciuta giorno dopo giorno dentro, come dice il nome dell’associazione, soprattutto incontri, che hanno il pregio dell’imprevedibilità, della scoperta: a cominciare da quello con Pietro Farneti, «un ragazzo inquieto scappato la prima volta di casa a sette anni; poi espulso dalla scuola in seconda media». Ha avuto successo come attore del Piccolo Teatro di Milano e «però anche quello non mi bastava». E allora si è messo a fare l’educatore in un Sert. Poi ha tracciato la sua strada «nella Sanità pubblica, in Assolombarda, nel volontariato», sfruttando ogni terreno e ogni occasione per «aiutare le persone che hanno problemi di dipendenza patologica», creando una Fondazione che oggi ha «1.100 persone in cura: il mio sogno».
Le questioni di fondo sono state affrontate nell’incontro di sabato pomeriggio con lo psichiatra Cesare Maria Cornaggia in dialogo con il teologo don Giulio Maspero. Un confronto che ha finito per tratteggiare i contorni di una resistenza, anzi, di una “guerra partigiana” alla mentalità dominante. Siamo immersi, dice Cornaggia, in una società «consumistica», la chiama così. Non solo perché all’«inquietudine» ci hanno educato a rispondere con lo shopping compulsivo: «Ci riempiamo di oggetti in modo tale da tacitare bisogni, sopprimendo invece la domanda, che invece è il cuore dell’uomo». Ma, in un senso ancor più radicale, perché la «domanda aperta», l’imperfezione che ci caratterizza la consideriamo un difetto. Lo psichiatra ha citato un’osservazione del grande psicoanalista Donald Winnicott: «“L’uomo è l’unico cucciolo di animale che piange alla sua nascita”. E questo perché avverte, accanto alla bellezza dell’esserci, la drammaticità dell’essere mancante».
L’esatto contrario di quello che pensano quasi tutti oggi, e cioè che le mancanze sono buche nella strada della vita da rattoppare subito con quel che si trova sotto mano. L’esito non può che essere una cupa «Stimmung, quest’atmosfera che ci portiamo dietro di essere sempre un po’ tristi». Cornaggia la gioca persino sul piano personale: «È un momento della mia vita in cui tante cose non vanno. So cosa vuol dire avere di fronte a sé il fantasma del fallimento». Ma siamo tutti «in un mondo di persone sole, che non ce la fanno».
Risponde don Giulio Maspero, aprendo la Bibbia e scoprendo che lo Yahweh ebraico non crea oggetti, animali, o individui singoli, ma sempre a due a due: «Dio crea relazioni»: il buio e la luce, il giorno e la notte, il firmamento e la terra, la superficie emersa e le acque, giù giù fino alle coppie di animali e a quella uomo/donna che è l’esempio più lampante che l’Essere, quello creato come quello creante, è sin dal principio “compagnia”: “Io sono me grazie a te”». Oggi, allora, che la macchina del mondo lavora per partorire (magari senza fastidiosi intermediari carnali) individui separati e docili, che quando sentono il morso della solitudine prendono una pastiglietta e ripartono, «noi dobbiamo essere una generazione partigiana: dobbiamo difendere l’umano. La nostra è un’epoca che ha bisogno di santi, non di brave persone. Sta finendo la modernità, ma non per questo dobbiamo pensare di ritornare al premoderno: dovremo andare oltre».
Don Maspero ricorda il libro di Romano Guardini Il potere. La fine dell’epoca moderna, sottolineando che oggi noi «abbiamo sempre più mezzi a disposizione, ma sempre meno scopi da perseguire». La fine della modernità, diceva Guardini, coincide con un caos in cui «si sono riaperti tutti gli abissi delle origini. Ma non ci si può abbandonare a una nostalgia restauratrice. Certo, scrive, "la solitudine della fede sarà tremenda». Andiamo verso un’epoca – dice il teologo - in cui «avremo sempre più un popolo ignorante, succube, manipolabile, e solo una ristretta élite sarà in grado di filtrare e giudicare ciò che accade: se non preserviamo lo spazio dell’umano ci troveremo presto circondati dai demoni».
Poi, occasioni come questo BergamoIncontra non sono fatte solo di parole, sono le famiglie, i gruppi di Fraternità, la gente che si ritrova a mangiare insieme, che si ascolta e si aiuta il vero nocciolo della questione. Sono tutte quelle persone stipate domenica sotto il tendone, al caldo, per la Messa con il vescovo monsignor Francesco Beschi, che infatti, nel giorno del Corpus Domini ricorda proprio che la «vita piena» di Gesù altro non è se non «una comunione vitale», qualcosa che «rimane in un incontro, rimane in un’amicizia. La comunità è fatta di comunione». L’ha definita persino, in tempi di pandemie disumanizzanti, non solo di Covid, «la vera immunità»; e non di gregge. Una esperienza di vita così forte che, come avvenne per Cristo sa affrontare il sacrificio, ovvero «un amore che non si sottrae al male. Che lo illumina e lo trasforma».
Non sono solo parole. Lo ha illustrato con evidenza la storia che ha raccontato Paola Marenco, vicepresidente di Medicina e Persona, curatrice della mostra “Takashi Paolo Nagai. Annuncio da Nagasaki”, creata per il Meeting 2019; rimandando anche alle pagine della biografia appena pubblicata da San Paolo Ciò che non muore mai. Il cammino di un uomo, con prefazione di padre Mauro Lepori. Una storia che potrebbe sembrare ai limiti dell’assurdo: un uomo, un medico, che assieme alla sua città, una mattina di agosto alle ore 11.02 diventa il bersaglio di una bomba atomica (la seconda della storia) che gli esplode sulla testa; che della sua amata moglie Midori non ritrova che ossa bruciate e un rosario fuso; e dopo tutto questo vive i sei anni migliori, più intensi della sua vita: nel giorno in cui il “Fat Man” americano esplode a mezz’aria nella valle di Urakami e distrugge ogni cosa, anche tutto il suo lavoro, Nagai comprende «il valore della testimonianza di Midori, che aveva sempre vissuto nell’umiltà e nel silenzio il suo sì a “Ciò che non muore mai”».
Takashi capisce che a quello bisogna attaccarsi, altra strada non c’è. Scopre di aver contratto la leucemia e ciò nonostante torna a vivere nel luogo dell’esplosione, a fare di tutto per aiutare la vita degli altri a ripartire, compiendo ogni giorno «un piccolo bene che ognuno può fare. «Quel modo di vivere», dice Marenco, «colpisce tutti», e contribuisce persino a stemperare l’odio dei giapponesi per gli americani in una fase politica delicatissima. Tanto che l’imperatore Hirohito lo va a trovare; e Papa Pio XII gli manda in visita il cardinale Norman Gilroy. «La gente, commenta Paola Marenco «andava a trovarlo per vedere questo: un uomo pieno di gioia. A cercare quella bellezza sotto la scorza della vita. Andavano lì per trovare la speranza». Paolo Nagai muore il 1° maggio 1951. Due giorni dopo, «per il suo funerale si ferma l’intera Nagasaki».
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Virtù eroiche, che forse ne faranno prima o poi, insieme alla moglie, un santo. Ma il suo modo di vivere non è poi lontanissimo da ciò che ha detto, in tono più giocoso e lieve, il concerto-talk di chiusura, domenica sera, di Marcelo Cesena, compositore brasiliano, quando ha raccontato la genesi del suo brano Pastéis de Belém, ispirato da una signora che da quarant’anni, sempre sorridente, nella Antiga Confeitaria di questo sobborgo di Lisbona altro non fa che confezionare fantastici pastéis. Anzi, non fa neanche i pasticcini - come ebbe a spiegargli - ma, con i suoi pollici ormai induriti dai calli, «solo il buco che ci va in mezzo, dove viene poi inserita la crema. Io però, sa, in negozio ho visto la sua faccia quando li ha assaggiati; vedo i volti dei clienti felici: noi qui produciamo più di 10 mila pastéis al giorno, e sono più di 10 mila sorrisi! Dunque vede che il mio contributo non è solo fare buchi nella pasta ma rendere questo mondo un po’ più bello. Lavorare perché la gente sia felice. E questo per me è abbastanza».