Gianluca Caporaso

«Con il signor conchiglia viaggio in cerca della grazia»

La tragedia dei migranti, la fantasia dei bambini, le parole che sono ferite ma anche possibilità di cura. Perché siamo «un miracolo del tu». Intervista allo scrittore potentino Gianluca Caporaso
Maria Acqua Simi

Come spiegare ai figli l’infinita tragedia dei migranti morti nel Mediterraneo? Come ricordare ai genitori che raccontare storie è, innanzitutto, un dono per sé e per i propri bambini? E possono le parole, oggi, curare le ferite di questi tempi incerti? A queste domande ha provato a rispondere nei suoi libri Gianluca Caporaso, classe 1973, scrittore potentino impegnato nel sociale e nel mondo del volontariato. Autore di diversi libri di narrativa e fantasia (ricordiamo Appunti di Geofantastica e i Racconti di Punteville, tra gli altri), candidato al Premio Strega 2023, lo scorso anno ha pubblicato Il signor conchiglia (Salani), ispirato alla vicenda del piccolo Alan Kurdi. Le sue storie sono rivolte soprattutto a bambini e ragazzi, ma la definizione gli va stretta perché, dice, «la scrittura deve essere per tutti, deve dare a chiunque, grande o piccino, la possibilità di approfondire la realtà». Ecco cosa ci ha raccontato.

Il signor conchiglia parte da un fatto doloroso, di cronaca, ma lo trasforma in un viaggio entusiasmante. Ce ne parli? Perché hai voluto renderlo così?
Il 3 settembre 2015, su una spiaggia turca nei pressi di Bodrum, il mare depositò il corpo di un bambino siriano che si chiamava Alan Kurdi. Aveva tre anni, una maglia rossa, ed era naufragato mentre attraversava il mare sui barconi dei migranti. La sua foto, scattata dalla giornalista turca Nilufer Demir, fece il giro del mondo.

Quello scatto commosse tutti.
Sì, ma quella commozione a me non passava. E io non volevo che passasse. Oggi siamo abituati a consumare tutto velocemente, anche le emozioni. Invece vanno guardate a fondo. Ne è nato un racconto fiabesco, dove quel bimbo viene tolto dal bagnasciuga freddo e viaggia per terre inesplorate e abissi fantastici. Ci ho messo cinque anni a scriverlo: ho cancellato, aggiustato, azzerato, riscritto. E ho scelto la fiaba perché mi sembra la dimensione che più non tradisce la bellezza, la delicatezza e la grazia dei bambini. Non ho reso eterno Alan, come qualcuno ha scritto: io non posso tenere in vita nessuno. Posso però far sì che resti viva la memoria, la consapevolezza.

Facciamo un passo indietro. Chi è Gianluca Caporaso?
Sono un narratore, racconto storie, amo radunare le persone perché la parola è un dono. E il dono per me non è il talento, cioè qualcosa che ti trovi cucito addosso, ma il dono è una disponibilità alla ricerca. Alla ricerca dell’altro. Io scrivo per dire: “Eccomi, io sono qua”, per costruire uno spazio di dialogo, di ascolto, dove stare insieme. In questo modo i racconti e la letteratura non diventano solo elementi delle mie composizioni personali, ma strumenti per vivere in modo più pieno gli incontri che faccio nella vita.

Di incontri ne fai tanti…
Sì, sono impegnato nel mondo del volontariato e della progettazione culturale, organizzo laboratori di scrittura fantastica e narrativa nelle scuole. Incontro tanti bambini e tanti adulti. Ma, vedi, al fondo l’unica cosa che mi importa è radunare le persone attorno alla bellezza, per trasformare in grazia la nostra vicenda di vita.

Cosa intendi per «trasformarla in grazia»?
Vivere non è facile, non lo è per nessuno. Siamo sempre alla ricerca di un precario equilibrio, ognuno di noi fa i conti con la bellezza e con la bruttezza, con la felicità e con il dolore. Ma l’“equilibrio”, tra le vicende del vivere, uno non può darselo. Serve sempre l’incontro con l’altro. A questo io sono stato educato dall’arrivo dei miei due figli. Loro sono un’esperienza radicale e potente, perché mi hanno obbligato a spostare lo sguardo da me stesso ad altro. Mi fanno sperimentare la fragilità perché non posso sostituirmi a loro, ma allo stesso tempo mi spalancano a un nuovo senso delle cose.

Qual è il compito di chi racconta storie?
Raccontare presuppone uno spazio e un tempo da dedicare e dedicarsi. Quindi raccontare è incontrare. I racconti hanno tante dimensioni e per me la più importante è pacificarsi con il Cielo, sancire un’armonia tra cielo e terra, camminare a fianco di Dio. Ecco, credo che raccontare abbia anche questo compito: uscirsene dal profondo, dal pianto, dalla fine, con una scintilla, con la luce, con la vita. Un po’ come accade ai tuffatori di Delo. Ma raccontare significa anche la condivisione di un desiderio di legame e di grazia. Tutti abbiamo bisogno di qualcosa che ci corrisponda, che ci porti fuori dalla nostra solitudine per metterci in un cammino di bellezza.

Perché hai voluto raccontare, innanzitutto, ai bambini?
Mi viene naturale, è nel mio modo di vivere le cose. Non sono mai partito dicendo: “Ora scrivo per i bambini”. Mai. Però con loro mi confronto sempre. Lo faccio con i miei figli e con quelli che incontro nelle scuole. Prima che uscisse Il signor conchiglia mi sono trovato con una decina di bambini per leggerlo insieme: quei dialoghi hanno modificato la traiettoria del racconto e ho perfino cambiato il finale. “Ci devi portare fino alla fine di questa storia per mano”, mi ha detto uno di loro. E io li ho seguiti. Trovo la felicità nel tempo trascorso con loro, anche se rispetto alla costruzione della parola la mia letteratura è per tutti: i codici che utilizzo consentono a chiunque un accesso, una chiave di lettura.

Scrivi per i bambini, ma i tuoi libri sono per tutti. Come è possibile?
Se penso a Il signor conchiglia e alla sua narrazione, è così: un bimbo che legge il libro si tuffa con Alan, viaggia con lui e gli diventa amico, un adulto – che sa cosa è successo a quel bambino morto in mare – magari riscopre la commozione. E non è un male commuoversi, perché il senso del tragico non è fine a sé stesso. Quando ci si commuove, ci si scopre fragili: ma la fragilità è la nostra forza, perché ci fa rendere conto della nostra piccolezza.

Non è una contraddizione?
No. Se io mi riconosco fragile, mi avvero solo se sto in rapporto. La luce da solo io non posso accenderla.

La scrittura per te ha a che fare con questa luce?
La narrazione fantastica, che è un po’ il filo conduttore della mia esperienza letteraria, mi aiuta a conoscere il mondo. Nei Racconti di Punteville ci sono storie mirabolanti, amori e lavori di uomini e donne che vivono nella città della punteggiatura, negli Appunti di Geofantastica do spazio alle memorie di un viaggiatore, che descrive i luoghi che ha incontrato giocando con i loro nomi… La fantasia non serve a evadere, la fantasia non si oppone alla realtà, ma la completa. È un ramo che cresce tra i rami, e rende l’albero della vita fiorito. Lo fa risvegliando la sorpresa, lo stupore, il gioco. Io sono stato fedele alle persone che ho incontrato e alle strade che mi hanno portato a questa scrittura.

Perché la narrazione fantastica aiuta il rapporto con la realtà?
L’uso di tecniche fantastiche attiva la nostra intelligenza. Il nostro sguardo diventa più attento, più acuto. E la realtà, spesso schiacciata da luoghi comuni, tu la vedi meglio. Ti faccio un esempio. Nei laboratori di scrittura introduco sempre la regola del “rovesciamento”. Invito i bambini a immaginare una città fantastica che è tutta al contrario: l’alba si leva a mezzanotte, i bambini portano i genitori a scuola, le maestre vengono interrogate dagli allievi… E in questo capovolgimento risulta con chiarezza la reciprocità della vita: non solo i bambini sono educati, ma anche gli adulti sono educati dai bambini. Del resto, noi siamo un miracolo del tu.

Interessante: «Siamo un miracolo del tu».
Sì. Io posso scrivere tutti i racconti del mondo, ma se nessuno li raccoglie rimarrebbero fogli imbrattati. La vita è la stessa cosa: io ci sono, se tu sei con me. Perché le mie parole entrino nelle vite degli altri, perché siano un fiocco di neve lieve e fresco e non un fiocco fantasma, è necessario che qualcuno le raccolga per sé. Ogni scrittore si confronta con la sua incompiutezza. E io scrivo anche per non rimanere solo, per dire che ci sono con tutta la mia incompiutezza.

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Tu giri l’Italia, e le scuole, proponendo libri fantastici e filastrocche. Ma i bambini di oggi sanno ancora ascoltare? E i genitori, sanno raccontare?
Nelle case c’è sempre meno spazio per raccontare e per raccontarsi, questo lo verifico nei laboratori che faccio a scuola. “A casa vi raccontano delle storie?”. Poche le mani che si alzano. Quando i bambini mi dicono che i genitori non gli raccontano le storie, allora io propongo “disobbedienza giocosa”: ti racconto io una storia e tu a casa, se ti è piaciuta, la racconti ai tuoi genitori. Così ci si educa alla bellezza di stare insieme.

Un’ultima domanda. La creatività è un dono?
Ognuno ha la sua voce, che è unica e irripetibile. Non bisogna aver paura di questa voce. La creatività è un dono, ma bisogna allenarlo. Io mi alleno ascoltando, curiosando, leggendo e provando a costruire formule sempre nuove. E poi quel che nasce lo faccio vedere ai bambini, anche ai miei figli, che sono i giudici più severi e più trasparenti, perché capiscono subito se le cose sono generative e hanno senso o se invece sono vuote. Per me la dimensione generativa è fondamentale. Se questa viene a mancare, le parole diventano inutili. Invece io voglio che le parole abbiano un significato e che generino. Ecco, vorrei che lasciassero una traccia per farci alzare lo sguardo e guardare, di nuovo, alla grazia e alla bellezza che ci sono qui fuori.