Monsignor Mario Delpini, Arcivescovo di Milano (Foto Fausto Ferioli)

«C’è una verità comune da cercare»

Le parole dell'Arcivescovo di Milano, Mario Delpini, alla presentazione della tesi di dottorato di don Giussani su Niebuhr (Università Cattolica, Milano, 11 giugno 2024)
Mario Delpini

Devo ammettere che il genere letterario della tesi di dottorato non mi è molto simpatico, perché quando uno fa una tesi di dottorato non è proprio come scrivere un libro; fare una tesi vuol dire avere un direttore di tesi, che dà delle indicazioni a cui bisogna attenersi, e un apparato critico in cui uno deve dimostrare un certo rigore nella documentazione. E poi – anche se sono sicuro che qui, in Università Cattolica, gli studenti non fanno così – nelle tesi, tante citazioni sono fatte solo per fare numero e non è che uno abbia sempre letto tutti i libri che cita… Una tesi di dottorato, insomma, è un lavoro un po’ “macchinoso” per chi la scrive ed è anche faticosa da leggere. Ecco perché dico che la tesi di dottorato non è il genere letterario che più amo, almeno in generale: è un adempimento accademico, quindi evidentemente fatto seguendo criteri che non sono funzionali soltanto a comunicare un pensiero o a svolgere un’indagine critica, ma sono funzionali anche a conseguire un titolo secondo le regole dell’accademia. Non che in questo ci sia alcunché di male, però, in genere, è un fatto che rende le tesi dottorali un po’ noiose, tutto qua.

Detto ciò, mi pare che il senso di questa ricerca di don Giussani sia che si possono porre delle domande e quindi evidenziare anche aspetti di inadeguatezza di un pensiero, per cui anche un certo modo di intendere il fatto cristiano, la rivelazione cristiana, può essere considerato insoddisfacente. Mi pare che qui sia presente una certa libertà di pensiero, quella di chi continua a cercare. Questo è il primo aspetto che colgo come positivo e che ritengo essere di una certa attualità: di fronte ai grandi, infatti, il rischio è vivere solo di citazioni e limitarsi a ripetere: «Come ha detto san Tommaso…» e si cita san Tommaso; «come ha detto Giussani…» e si cita Giussani. Tutte cose giuste, ma non dobbiamo dimenticarci che porre delle domande permette sì a un pensiero di rivelare la sua fecondità, ma anche i suoi limiti. Ecco, questo è il primo aspetto che ritengo interessante.

Una seconda considerazione riguarda, invece, il vissuto personale dell’autore: questo studioso americano era un pastore, uno che faceva – diciamo così – il mestiere del predicatore, o comunque del difensore, del propositore di una certa visione cristiana. Eppure Niebuhr è stato provocato a fare dei passi, forse persino diversi da quelli a cui era in qualche modo predestinato: l’incontro con la sofferenza, con situazioni umane di sfruttamento, con la civiltà industriale americana che viveva un momento di grande successo a un costo umano, però, insopportabile hanno portato il suo pensiero a evolvere perché provocato dal dolore, dalla sofferenza e dalla scarsa valorizzazione delle persone. Ecco, quello che voglio sottolineare io, però, è che don Giussani studente, già prete e studioso di Venegono, si è avventurato nello studio della teologia americana, dunque di una teologia protestante, riformata, ma lo ha fatto con quella persuasione che a Venegono abbiamo sempre avuto (anche se noi siamo degli eredi, degli epigoni, un po’ scarsini rispetto ai nostri grandi maestri) e cioè che si possa varcare la soglia di un terreno che non ci sia già propriamente congeniale; perché anche lì si possono incontrare delle provocazioni a pensare. Quindi entrare nel campo della teologia protestante o in quello della teologia orientale, o esplorare anche altri ambiti della teologia, è un’avventura possibile, non perché uno sia smarrito o perché debba andare a mendicare qualche luce altrove, ma proprio perché uno ha una persuasione così sentita, così radicata, di avere un punto di vista legittimo e proponibile, che allora può incontrare i grandi autori e personaggi illustri di qualunque altra tradizione; non per dire che «siamo migliori noi» e nemmeno per dire che «dobbiamo imparare tutto dagli altri», ma per dire: «C’è una verità comune da cercare che ci spinge tutti oltre».

Ecco perché sono grato di questa pubblicazione e ritengo di poter condividere questi due aspetti come atteggiamento spirituale con cui affrontare la lettura o comunque la ricezione di questa proposta: il coraggio di porre domande e, nello stesso tempo, la serenità di incontrare pensieri diversi senza farli diventare fonte di smarrimento o di inquietudine, ma contributi a pensare insieme il fatto cristiano e la verità dell’uomo secondo il Vangelo. Perciò io ringrazio chi ha curato questa pubblicazione e auguro a tutti che questa mia introduzione possa essere utile a incoraggiarne la lettura. Grazie a tutti.