Cormac McCarthy (Foto Professor Productions/ Jones, Dawn/ Album/ Mondadori Portfolio)

In viaggio con McCarthy

Il grande scrittore americano che ha ispirato il titolo del Meeting di Rimini raccontato da Stas’ Gawronski, autore e conduttore tv, su "Tracce" di ottobre
Davide Perillo

«Guarda, a un certo punto mi sono letteralmente ritrovato in ginocchio davanti al mistero. La letteratura ha questo potere: ti porta a scavare fino al fondo, della realtà e di te stesso. Non succede spesso, ma succede. E a me è toccato con Cormac McCarthy». Al punto che a parlarne, spesso, si commuove. Deve fermarsi, pesare le parole. Tirarle fuori dal fondo del suo vissuto. Gli è successo anche al Meeting di Rimini, che quest’anno prendeva il titolo proprio da un romanzo del grande scrittore americano: «Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora che cosa cerchiamo?». E sul palco della Fiera, a ripercorrere il viaggio di McCarthy sulle tracce di questo «essenziale» (anzi, dell’essence, come nell’originale), c’era proprio lui, Stas’ Gawronski. Autore e conduttore tv, insegnante di scrittura creativa, è stato il protagonista (assieme al critico Alessandro Zaccuri) di uno degli incontri più densi di quelle giornate riminesi, che su di lui hanno avuto un effetto potente («sono rimasto poco, ma mi ha colpito soprattutto la freschezza dei ragazzi: vorrei tornarci e viverlo più a lungo, perché secondo me il Meeting va abitato mettendosi in ascolto e lasciandosi toccare») e in chi lo ha conosciuto hanno aperto orizzonti larghi e profondi.

Mi racconti il tuo incontro con McCarthy? Perché è evidente che in qualche modo ti è diventato amico, compagno di strada. Come è successo?
Quando c’è un autore che mi colpisce lo leggo e lo rileggo più volte, perché è come scavare nella terra una sorgente di cui avverti la presenza. E così è stato con McCarthy. Incontrarlo mi ha spinto non solo a leggere tutti i suoi libri, ma a restare a lungo, all’inizio, sulla “trilogia della frontiera”. Sono arrivato al punto che ho voluto rileggere quei romanzi viaggiando nei luoghi di cui parla lui. La geografia di McCarthy è reale: è assolutamente preciso nel contestualizzare le sue storie, nel tempo e negli spazi. E quindi ho fatto due viaggi lungo la frontiera: nel 2014, dalla parte degli Stati Uniti, e due anni dopo, in Messico. Spesso leggevamo dei passi assieme a gente del luogo, a cui raccontavamo questa storia come se fosse vera e chiedevamo indicazioni sui posti. Le reazioni erano straordinarie: le parole di McCarthy toccavano la loro immaginazione e tornavano indietro, a investire noi. Era un modo per entrare più nel profondo, nelle viscere del testo. Fino al momento in cui mi sono accorto che era successo qualcosa. La parola, nel caso di un autore come McCarthy, ti può portare a penetrare la realtà a tal punto da ritrovare che qualcosa dentro di te si è piegato, e ti ritrovi in ginocchio.

Intendi un momento fisico, puntuale? O è qualcosa che si è costruito nel tempo?
No, è una cosa che è nata nel tempo, ma che poi si è ripetuta nelle varie riletture. Mi succede tuttora se rileggo alcune pagine: l’esperienza è sempre nuova. Uno può dire «sì, l’ho letto, lo conosco», ma in realtà ogni volta accade qualcosa di imprevedibile. Al Meeting, per esempio, mi è successo quando ho letto la pagina di Alicia Western, la protagonista di Stella Maris e de Il passeggero, che immagina questo suo darsi in pasto agli animali lì intorno, e quando ho pronunciato la parola “eucarestia”. Qualcosa dentro di me si è mosso. È inspiegabile. Ma una cosa è certa: la parola di McCarthy è una letteratura incarnatoria. Dà carne al fondamento di tutto.

Stas’ Gawronski (Foto Meeting Rimini)

Ma quando ti sei reso conto che tutto il percorso dei suoi romanzi, alla fine, si può leggere come una storia unica, un unico viaggio, come raccontavi al Meeting?
Quando ho letto La strada, nel 2007, ho avuto chiaramente la sensazione di un approdo. Mi è parso evidente che il protagonista delle storie precedenti di McCarthy è un uomo che viaggia sulla scia di una nostalgia profonda per un rapporto con il padre, che ha perso. E questo padre è Dio, è il divino: è lui che viene cercato dai suoi personaggi, e nell’esito de La strada è un divino che si incarna in una relazione. Quando mi sono trovato di fronte a questa realtà bruciante, al rapporto fra il padre e il figlio che insieme custodiscono il fuoco - cioè la sostanza che il protagonista delle storie di McCarthy ha cercato in tutti i romanzi precedenti -, allora mi è apparso chiaramente il disegno di questa che è veramente un’unica storia, di cui Il passeggero e Stella Maris sono un compimento. Per analogia, ti direi che La strada sta al Nuovo Testamento come tutti i libri precedenti di McCarthy stanno al Vecchio Testamento. Nella strada si compie la rivelazione di ciò che questo protagonista errante, spesso spaesato, smarrito, va cercando: lì trova la sua consistenza.

Quali sono i tratti di questo protagonista, il “cacciatore del divino”, di cui parlavi a Rimini?
In Cavalli selvaggi c’è un passo che dice molto: «Ciò che amava nei cavalli era la stessa cosa che amava negli uomini: il sangue, il calore del sangue che li animava. Tutta la sua stima, la sua simpatia, la sua propensione andava per i cuori ardenti». Ecco, all’inizio di tutte le storie di McCarthy c’è un uomo con un cuore che arde; e questo cuore ardente non è l’espressione di un vitalismo, dell’entusiasmo e della forza dei giovani, che in fondo, spesso, rimane superficiale. No, all’inizio c’è un cuore in cui abita una presenza divina: c’è un fuoco che fa ardere.

E ha la stessa natura del divino, cioè dell’oggetto della sua ricerca…
Sì. Questo fuoco desidera ricongiungersi con un fuoco che è fuori. Pensa al protagonista di Oltre il confine, per esempio: è un ragazzo che vive una sorta di epifania nel momento in cui il suo sguardo incontra quello di un branco di lupi. Si fissano. E c’è un riconoscimento tra il fuoco che è dentro il cuore del protagonista e quello che passa, come energia elettrica, attraverso gli occhi di questi lupi. Il ragazzo ne viene segnato, è come se venisse toccato da un ferro rovente. Da quel momento il suo unico desiderio, la sua ossessione, è di impossessarsi del divino. Di possedere questa esperienza che gli ha consentito per un attimo di vivere la pienezza, la comunione e la bellezza infinita, di cui andrà in cerca.

E questo cuore ardente è irriducibile, continua a bruciare qualsiasi cosa succeda durante il viaggio…
Sì, è assolutamente un punto irriducibile. Ma il mistero della libertà è grande. L’uomo che diventa un cacciatore del divino, come i protagonisti di McCarthy, è tentato proprio dal possesso, cioè dall’idea di possedere quel mistero. Quando succede, la sua avventura diventa una discesa agli inferi. Tutto gli si rivolta contro e si smarrisce. Quello è il momento in cui arriva una seconda tentazione, più decisiva ancora: il pensare che non ci sia un fondamento della realtà, che questo divino alla fine non esista. L’uomo che arriva qui cede alla tentazione del nulla. Rimane cacciatore, proprio per la presenza irriducibile in fondo al cuore di questo fuoco, ma diventa cacciatore di uomini, un uomo che divora altri uomini. Lo vediamo nei cannibali de La strada, come negli scalpatori di Meridiano di sangue.

L’altra condizione sperimentata in questo percorso è «l’essere orfano». Che peso ha questa condizione e cosa ci dice oggi? Perché forse è una delle parole che illuminano di più il presente…
Il punto è che siamo tutti orfani finché non accettiamo di entrare in una relazione con il padre. Al Meeting parlavamo della scena di Oltre il confine in cui il vecchio cacciatore dice al ragazzo: guarda che la lupa - che rappresenta il divino - non la puoi catturare: «Quel fuoco che c’è in lei è come un fiocco di neve: quando lo afferri, scompare». Ecco, l’orfano è colui che ostinatamente vuole impadronirsi del divino e, piano piano, scivola in una deriva di nichilismo. E McCarthy è bravissimo nel descriverci la solitudine radicale, cosmica, che vive il cacciatore del divino incapace di riconoscere la propria orfanità e, quindi, di entrare in rapporto con il padre. In questo modo, l’orfano non sa di essere orfano; non giunge a quella consapevolezza che, pur nella solitudine, potrebbe farlo aprire, così come si apre Alicia Western. Anche lei è una donna sola, ma il suo non è un atteggiamento di possesso; anzi, è un graduale, ma radicale, abbandono di tutto ciò che poteva possedere. È un paradosso: il divino si rivela a noi attraverso le cose, le esperienze che facciamo, le persone, ma non si lascia possedere. Al contrario, lo incontriamo quando capiamo che il passo da compiere è, in qualche modo, perdere la propria vita, offrirla. Ma ancora, è la relazione che McCarthy descrive molto bene ne La strada tra padre e figlio.

La “tentazione del nulla” porta al nichilismo, di cui McCarthy è accusato spesso anche per il suo modo crudo e senza sconti di raccontare il male. Ma è davvero così?
È chiaro che per McCarthy la vita è un campo di battaglia in cui avviene uno scontro epico tra luce e tenebra. Questo è descritto in modo molto netto: c’è una lotta tra ciò che è umano e ciò che non lo è. Il male è una realtà spirituale che si esprime attraverso personalità molto precise, come Chigurh, il serial killer di Non è un paese per vecchi, o il Giudice Holden in Meridiano di sangue. Ma allo stesso tempo la descrizione di questo conflitto è come il racconto di due lottatori i cui corpi aderiscono quasi fino a diventare un unico essere: luce e tenebre sono intarsiate, coagulate. Fino al punto in cui le tenebre stesse, in qualche modo, emanano luce. A Rimini citavo certi quadri di Rothko, tele nere ma luminose. Possono le tenebre emanare luce? Sì, se pensiamo che Cristo ha detto: «Quando sarò innalzato, attirerò tutti a me». Ecco, McCarthy è come se ci invitasse continuamente a fissare lo sguardo sulla croce, a bere fino in fondo il calice amaro del non senso di quello che lui scrive chiaramente ne Il passeggero: ogni realtà è perdita. Se non ci distraiamo, se fissiamo lo sguardo su questa perdita, allora forse lì, al fondo, riusciamo a scorgere anche una luce. E quella luce è l’essenza su cui tutta la letteratura di McCarthy è fondata.

La pagina iniziale de Il passeggero, con cui avete cominciato il percorso del Meeting, in cui Alicia pende dall’albero a cui si è impiccata, è feroce. Che impatto ha avuto quando te la sei trovata davanti?
È stato forte, perché mi è sembrato di essere lì. McCarthy spesso è paradossale, ma quella pagina ci dice che lì dove il male è estremo, dove la scena è di morte, è presente l’essenziale. Ed è il proprio paradosso della croce. Come aveva già detto in un passaggio de La strada: «Tutte le cose piene di grazia e di bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri». Non ci può essere la felicità che cerca il cacciatore del divino senza il sacrificio portato fino all’estremo. E noi lettori veniamo invitati a piantare lo sguardo su questo mistero. Giorni fa, alla fine di un incontro, un ragazzo mi ha detto che avrebbe letto McCarthy, ma non La strada, perché lo trovava troppo angosciante. Io, d’istinto, gli ho risposto: «Ma è una bestemmia. È come dire: “Accetto tutto di Cristo, ma non accetto la croce perché è troppo angosciante”».

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Da lettore, hai incontrato altri autori così potenti?
Sì, ma devo fare nomi come Dostoevskij o Manzoni. Oppure, per l’impatto che ha avuto su di me, Flannery O’Connor, un’altra che, nel leggerla, rafforza la percezione del mistero. Anche lei è disturbante, non è di facile lettura: però se fai l’esperienza fino in fondo, se accetti di stare sui testi, è una letteratura che plasma, dà forma all’ardere del nostro cuore.

Senti, ma alla fine questo viaggio di anni fatto insieme a McCarthy ti sta cambiando? E come?
Sicuramente, come nel titolo del Meeting, è un viaggio verso l’essenziale. Pensa a La strada: racconta una realtà in cui la natura è stata ridotta quasi a nulla, il mondo è di cenere, è buio e freddo… Però c’è l’essenziale, che vive nel rapporto fra padre e figlio. E così per i protagonisti de Il passeggero e Stella Maris: nel loro percorso c’è un asciugarsi di tutto ciò che è superfluo per arrivare dritto al cuore. Ecco, se la letteratura di McCarthy sta avendo un effetto sulla mia vita oggi, è proprio questo: aiutarmi nel cammino verso l’essenziale. Anzi, “verso l’essenza”, come direbbe lui.