In classe con una febbre di vita

VITA DI CL - INSEGNANTI
Paola Bergamini

Un anno e mezzo fa, don Carrón aveva lanciato una sfida. Il 15 marzo, oltre quattromila insegnanti si sono ritrovati per continuare il cammino iniziato. E testimoniare, da un lavoro su Darwin alla morte di uno studente, «cosa sostiene la nostra speranza»

Tutto è cominciato il 14 ottobre 2007. Primo incontro degli insegnanti con don Julián Carrón. Erano anni, da Viterbo ’77 con don Giussani, che non si faceva un gesto del genere. Era stato il punto di inizio di un lavoro. In quella circostanza era emersa una pesantezza, una fatica, un disagio perfino a trovare le ragioni del proprio lavoro. E c’era stata la sfida lanciata da don Julián, che aveva tagliato le gambe a pensieri, teorie, puntando ancora una volta sulla persona: «C’è qualcuno disposto a verificare la fede, a verificare il suo rapporto con Cristo?». Un invito, che molti in questo anno e mezzo hanno preso sul serio. E l’aria che si respirava il 15 marzo scorso al Palasesto era ben diversa. Come ha esordito all’inizio dell’incontro Franco Nembrini, responsabile del Cle (Comunione e Liberazione educatori; ndr), sul palco insieme a don Carrón, davanti ai quattromila insegnanti presenti - oltre a quelli collegati in diretta in Italia e all’estero e in differita -: «Sono rimasto impressionato dalla ricchezza dei contributi che ci sono pervenuti. Perché è evidente che c’è una strada». Un impeto di vita, una fede certa, che fa affrontare la confusione, la fatica con una speranza. «Ma dentro le circostanze, anche dolorose, cosa sostiene la nostra speranza? Ho ancora negli occhi la tragedia di Winnenden (la strage compiuta da uno studente tedesco, 16 vitime; ndr) e ciò che mi ha scritto poche ore dopo il nostro amico Thomas: “Qualsiasi risposta data formalmente sarebbe ideologica, non adeguata. Chiedo un aiuto a voi”», ha continuato Franco. Da questa domanda è iniziato il lavoro della mattinata. Dalla testimonianza di chi ha visto dove poggia la nostra speranza.

Un manifesto in classe. Anna racconta del cambiamento che ha suscitato in lei la morte di Patrizio, un suo alunno diciannovenne. E il dolore che ha investito i genitori fino al punto di dire che Dio, se c’è, è cattivo, ingiusto. «Sono andata a casa loro. Nessuna parola poteva consolarli. Sono stata con loro e basta. Avevo la coscienza che il Mistero era venuto a trovarmi. Questo mi ha donato un’inaspettata sicurezza e una forza che non erano mie, poggiavano su un Altro», racconta. Anna contatta i colleghi e i compagni di classe e insieme scrivono un manifesto in cui si dice che il destino di Patrizio non era il nulla, ma si era compiuto tra le braccia del Mistero. L’amicizia con i genitori continua, tanto che la mamma, durante la messa di settima, le dice: «Voglio te qui vicino». E qualche giorno dopo: «Io una come te non l’ho mai incontrata».
«Sarebbe stato utile venire qua solo per sentire queste parole. Potremmo già andare a casa. È toccare con mano quello che ci è accaduto, ciò di cui abbiamo veramente bisogno», interviene Carrón. Che cosa consente di non scappare di fronte al dolore? Di non sentirsi sconfitti? Perché anche la nostra vita è toccata dal male. Solo una presenza che ti dice: «Ti voglio qui vicino». Un volto in cui il Mistero diventa carne: questa è la contemporaneità di Cristo. Una Presenza che ti sta accanto, che investe il reale.
Ma questo è un cambiamento di metodo, di affronto della realtà che va al di là delle apparenze. «Solo così possiamo educare. Perché quando insegniamo matematica, storia, letteratura se non abbiamo questo orizzonte cosa insegniamo?». Tutto si gioca nelle circostanze che la vita ci pone davanti. Anche quando si tratta di fallimenti, di situazioni negative.

Tenerezza o strategie. Barbara racconta di una sua alunna che ha tentato di scappare da casa lasciando questo biglietto: «Odio la scuola con tutto il mio cuore». Poi la decisione, poche settimane fa, di cambiare istituto. Barbara si pone mille domande e mille giustificazioni: dove ho sbagliato? Ma no, in fondo ho fatto tutto il possibile... «Più analizzavo la situazione e stavo al gioco di questi miei sentimenti altalenanti, più la figura di questa ragazzina svaniva. Ero più interessata a me che a lei». Poi arriva il volantino su Eluana: “Ci vorrebbe una carezza del Nazareno”. «L’imbattersi con un’umanità cambiata mi ha liberato dalla mia difesa a oltranza. Al punto che mi sono trovata a chiedere che il rapporto con questa mia alunna non finisca». Semplicemente imparare da ciò che accade, ancora una volta guardare la realtà.
Per Paola la vita andava benissimo. Una bella famiglia, tante “attività”: Gs, Diesse, il coro, le Famiglie per l’accoglienza... Poi, cinque anni fa, tutto sembra crollare. Entra in crisi il matrimonio. «Improvvisamente mi sono accorta che tutto il mio fare non aveva alcun significato, Cristo non c’era. Dopo trent’anni di movimento mi rimaneva solo lo sconforto, l’angoscia». Paola scrive a don Giussani comunicandogli il dolore che la stava annientando e comincia a pregare affidando al Signore ogni minuto della giornata. E lui le fa pervenire questo messaggio: «Il tuo compito è essere moglie e madre. Il Signore ti chiede di amarlo nella tua vocazione, non di fare altre cose». Via tutti gli impegni. «Ho continuato a pregare lasciando spazio alle cose che accadevano senza imbrigliarle in un mio progetto». Cambia tutto: il rapporto con il marito, con i figli, ma soprattutto con se stessa. Muta il modo di insegnare. «Non ho più il “pensiero” di come coinvolgere i miei alunni in Gs (e non ci sono mai riuscita!), le strategie da usare, ma li guardo con la stessa tenerezza con cui io sono stata guardata, affidandoli a Gesù». E così un ragazzo, incontrandola in corridoio, le dice. «Lei è felice, come altri di Cl che ho conosciuto. Io voglio essere felice così». Tutto questo insegnando educazione fisica!
Ma se, come hanno raccontato le testimonianze, c’è un’esperienza di bene che si impone alla vita, nei fatti, nelle cose, perché si ha la paura di perdere questa bellezza? Come permanere? Come può essere che sia «per sempre»?
«Se ci si pone questa domanda vuol dire che non abbiamo capito che cosa è la bellezza che abbiamo davanti. La nostra paura inizia nell’istante in cui blocchiamo il percorso di conoscenza che questa bellezza fa iniziare. Se c’è non può svanire! - spiega Carrón -. Rimaniamo sempre all’apparenza. A chi può venire paura? Chi non è arrivato alla fede, chi non si rende conto che quello di cui stiamo parlando è il segno della Sua presenza. È Cristo risorto». Il rischio è quello di staccare il segno dalla sua origine, fermandosi all’apparenza. È ancora una volta l’io a doversi mettere in moto, a fare il percorso della conoscenza, l’avventura della conoscenza. In questo modo la noia è bandita perché l’orizzonte è il mondo. Questo, semplicemente, significa prendere sul serio ogni cosa. È una sfida per chi ogni giorno entra in classe e deve insegnare storia, chimica, letteratura... o religione. Come ha fatto don Giussani dal primo giorno che è entrato a scuola. Cosa ha comunicato: una dottrina? O una febbre di vita? È ciò che fa dire che «questo è il più bel mestiere del mondo», come aveva esclamato Nembrini nell’incontro precedente. E Carrón aveva aggiunto: «Voi avete idea di che cosa voglia dire insegnare? Nel senso proprio dell’ora di lezione?».
Una domanda che ha portato i suoi frutti, per chi l’ha presa sul serio. «Perché c’è stato un fiorire incredibile di tentativi, riusciti o meno, dal più piccolo a quello di rilievo nazionale», ha spiegato Nembrini. Come quello di cui è stato protagonista Paolo. «Ho partecipato a una riunione di insegnanti provenienti da varie scuole. Tema: il rapporto tra docenti e genitori. I primi interventi sono stati una serie di lamentele: i genitori o si intromettono troppo, oppure sono totalmente assenti. Quindi, unica via d’uscita è mantenere rapporti strettamente formali». Paolo non ci sta. Partendo da alcuni fatti afferma che innanzitutto il rapporto tra professori e genitori è l’incontro tra due bisogni: quello delle famiglie di essere accompagnate nell’avventura educativa dei propri figli e quella degli insegnanti di vivere dentro la comunità educante. Come è possibile, allora, fermarsi al ruolo, alla formalità? «Io sono io con tutte le mie esigenze umane dentro il rapporto con i ragazzi. L’unico elemento indispensabile è che il mio cuore sia desto, le esigenze più vere della mia natura devono essere sveglie». La riunione è ribaltata. Il coordinatore spiega che la seconda parte dell’incontro si sarebbe svolta... sull’intervento di Paolo. Un’insegnante commenta: «Penso che nulla di quanto detto dal collega possa reggere senza un riferimento a un assoluto sul quale tutta la vita e tutto l’io poggino, che non ci rende succubi dell’esito. Il problema è che il mondo ha messo da parte Dio». A quel punto il tema è diventato Dio. «In quel momento ho intuito che la testimonianza passa, semplicemente, attraverso ciò che ci è chiesto», conclude Paolo.

Allargare la ragione. Francesco insegna scienze a Torino. Carrón, in un colloquio, gli aveva detto: «Che cosa vuoi insegnare ai tuoi alunni attraverso la chimica organica? Perché capire la chimica organica significa percepire il nesso con la totalità». Una sfida che ha determinato totalmente il suo modo di lavorare. Nella sua scuola quest’anno con i colleghi dell’area scientifica ha organizzato “La tre giorni della scienza”. «Insieme abbiamo provato prima di tutto a domandarci: ma che cosa vuol dire insegnare le scienze a dei ragazzi? Dove vogliamo arrivare proponendo una giornata sull’evoluzionismo o sul global warming? Cosa c’entrano questi argomenti con la nostra vita? Davanti a una situazione particolare, la mia ragione era provocata al massimo. Potevo parlare del reale senza lasciare da parte il Mistero». Una posizione diversa che anche i colleghi avvertono. Tanto che, alla fine della tre giorni, un insegnante gli dice: «Non ho mai lavorato così, ma soprattutto, per la prima volta, sono venuto a scuola senza dover dimenticare niente di me: la mia paura di sbagliare, i miei problemi a casa... E con una gran voglia di essere incidente nella realtà della giornata».
«L’incontro è l’inizio che ci permette il percorso della conoscenza - spiega Carrón -. Questo significa che non è possibile insegnare come tutti e poi “appiccicarci” sopra Cristo! Non ci viene risparmiato il lavoro. Anzi, dobbiamo documentare che il nostro modo di guardare il reale tiene presente tutti i fattori». Questo significa “Educare: un’avventura per sé”, titolo dell’incontro. Sicuramente è scacciata la noia di entrare in classe ripetendo una serie di formule e nozioni per poi, alla fine, buttare qualche bella frase di don Giussani. Mentre la sfida è un’altra, che non lascia tranquilli, è la sfida della fede lì nel luogo dove siamo, con i colleghi, i ragazzi, con la materia da insegnare. «Il Papa ci ha detto “allargare la ragione”. Questo lo ha detto a voi, capite? È il vostro compito!», continua Julián. Sono parole che possono caricare di una responsabilità che schiaccia oppure... allargare la ragione e aprire l’orizzonte del proprio lavoro a 360 gradi. Una liberazione, per chi accetta la sfida.
Ma in questo percorso ci si può sentire da soli, anche se magari nella scuola dove si insegna ci sono altri amici del movimento. «Come fare a sostenersi in questo lavoro senza scivolare nell’organizzazione?», chiede Nembrini. «Noi facciamo fatica a capire il metodo di Dio, così come ce lo ha spiegato Giussani: Dio chiama uno per arrivare a tutti, dà la grazia, la spinta a uno per smuovere gli altri. Il Mistero fa quello che gli piace, non chiede a noi il permesso. Non è possibile ridurre la comunione all’essere tutti d’accordo! Giussani quando è arrivato al Berchet era da solo. Se uno sente l’urgenza deve rispondere in prima persona, anche se gli altri della comunità non capiscono. Bisogna essere disponibili a riconoscere qualsiasi spunto di novità, di verità che troviamo in chi ci sta accanto. Da questo si genera la vera comunione», ha concluso Carrón. Si esce dal Palasesto. Si torna in metrò. E un’amica insegnante, invitata da una collega all’incontro, dice: «Mi porto a casa questa domanda: “Che cosa insegno quando insegno?”». La sfida è aperta.