"Impression, Soleil levant" di Claude Monet.

LETTERA Quel punto di fuga nei quadri di Monet

Jacopo è andato a vedere la mostra sul pittore francese allestita a Palazzo Reale a Milano. Ecco quello che scrive ad alcuni amici pochi giorni dopo...

Mi ha colpito la frustrazione che Monet si portava dietro, la guerra che ogni volta combatteva nel tentativo di rappresentare ciò che solo lui vedeva. Lo struggimento di questo dono, di questo occhio speciale, che non poteva fare a meno di scandagliare ogni particolare della realtà sotto uno sguardo del tutto eccezionale, che perfino chi lo seguiva ammetteva di non possedere. Tutti vedevano ciò che vedeva Monet ma lui vedeva quel che nessun altro vedeva. Doveva essere una bella croce. Commovente il dialogo dove lui dichiara la fatica di sopportare questa capacità: perfino di fronte alla moglie morta lui non poteva che notare e sviscerare gli effetti della luce e del colore, il gioco di ombre che la morte aveva dipinto sul volto di Camilla. Che abitudine costernante doveva essere! Lui stesso lo confessa a un amico: «Guarda fino a che punto sono arrivato!». E non poteva che essere mosso dall’esigenza impetuosa di riprodurre quel che vedeva.
E qui viene ciò che ho imparato oggi. Monet si irrigidiva, sbuffava, si rattrappiva poiché non era in grado di riprodurre fedelmente ciò che vedeva, soffriva un complesso di inferiorità dal punto di vista artistico, «sono un povero imbrattatele, non so fare niente…». Eppure guardando i suoi quadri non passava neanche per l’anticamera del cervello dire «qui c’è un'imperfezione, qui manca qualcosa, non è completo». Come dire, l’imperfezione che lui avvertiva è abbracciata da una perfezione, da una bellezza definitiva e totale, che basta, non chiede altro. Il punto di fuga che lui lamenta, quel fattore che non riesce ad esprimere come vorrebbe, dentro l’imperfezione, è già espresso, è già sensibile. Ed è quel punto di fuga irrappresentabile, che misteriosamente è comunque presente, tanto da avere la potenza di affascinare. Come davanti a un tramonto, l’emozione che fiorisce non è contenibile in un concetto, o nell’insieme (seppur armonioso) di nuvole, luce, cielo, riflessi. C’è un punto di fuga, che è sperimentabile ma non calcolabile, c’è qualcosa di vivo che fa vibrare il cuore ma che non potremmo mai riprodurre meccanicamente.
E senza questo il cuore non potrebbe vibrare. Si è costretti perciò a lasciare spazio a questo mistero, a qualcosa fuori dal quadro ma che è dentro il quadro. E questa apertura a un’altra misura deve essere la condanna più frustrante per l’artista. D’altra parte il genio pittorico non è altro che questa capacità innata di Monet: l’essere in grado di delineare i contorni di questo mistero, definendone i lineamenti, la sagoma, il profilo più esatto possibile, e così l’aprirci la strada per poterlo riconoscere. Ed è questa la nobiltà del suo lavoro, il grido che la sua opera oggi arriva a me. Ma non basterebbe neppure questo.
Che c’entra questo con noi? Con me? Perchè arriva ad interessare la mia vita? L’incontro che abbiamo fatto ci offre la grazia di poter dare un nome a questo mistero, di poterlo chiamare Mistero. Ma soprattutto di poterlo domandare, mendicare. Il valore della preghiera, il grido che il Mistero, che così potentemente ha investito la nostra vita, si sveli dentro la mia realtà, i miei incontri, il mio lavoro, i miei rapporti, il mio impatto con la realtà tutta. Perché è di questo che ho bisogno, come Monet per l’urgenza che si ritrovava addosso tentava di esprimere, consapevolmente o meno. La certezza che quel punto di fuga si sia reso presente, prima a Nazareth e oggi qui, sperimentabile sotto una forma umana, è la cosa più impressionante che possa esistere al mondo. Che sia possibile iniziare già qui a godere di quell’accenno di infinito che ci è concesso di vivere ora e che ci è promesso di abbracciare definitivamente poi, è l’avventura umana più affascinante che esista, come doveva essere per Monet il lasso tra il riconoscimento del Mistero della ninfa e l’urgenza di afferrarla in modo definitivo.
E che le pennellate di Monet possano essere i vostri volti, una compagnia carnale, l’amore alla donna, insomma una umanità diversa, l’esperienza di questo di più non può che essere un dono di cui continuamente devo essere grato e mendicante.
Non può essere una frustrazione, ma lo struggimento perché questa Presenza si sveli continuamente, senza mai abbandonarmi.
Grato a Monet più che mai, e a chi mi ha permesso di incontrarLo oggi.
Jacopo, Milano