INTEGRAZIONE Io, figlio di emigranti, davanti ai miei alunni musulmani

Da bambino Mario viveva in Svizzera, figlio di emigranti. Ora, in Sicilia, è professore di tanti studenti extracomunitari. Ecco il racconto della sua vita in classe (da "La Sicilia", 21 ottobre 2009)
Mario Tamburino

Io sono nato in Svizzera, figlio di emigranti. Sono cresciuto lì fino ai tredici anni. Ho frequentato quella scuola e volevo essere svizzero, come loro. Lo volevo a tal punto che, quando nell'ottobre del 1970, Sandro Mazzola, dopo una serie funambolica di dribbling e palleggi insaccò ammutolendo il Wankdorfstadion di Berna, devo essere stato l'unico italiano sul pianeta a non esultare. Avevo sette anni.
Parlavo quella variante alemanna delle lingue germaniche che è dialetto elvetico prima ancora di articolare frasi in italiano. Dalla domenica sera al venerdì della settimana successiva, io e la mia sorellina eravamo accuditi da una signora svizzera che ancora oggi, dopo 46 anni, chiamo «mamma Emma».
Un giorno, protestando per l'ennesima volta la mia volontà di non essere strappato, per il fine settimana, a quella che consideravo la mia famiglia, la mia povera mamma mi gridò con chissà quale strazio: «Jù sugnu a mamma to!», sono io la tua mamma. Così, da quel giorno, per distinguerla dalla «mamma Emma» cominciai a chiamarla 'mamma to'».
La Svizzera non ha mai inteso contraccambiare tanta straordinaria abnegazione conferendomi la cittadinanza e, francamente, non me ne importa nulla. Non mi sembrava allora, e non mi sembra adesso, un atto di discriminazione.
Khadija, la mia alunna marocchina ha diciotto anni. Veste all'occidentale. I suoi bei capelli scuri, raccolti, sempre in ordine, fanno da cornice agli occhi che sembrano due olive nere. Dopo tre anni e mezzo è tornata per le vacanze estive al paesino d'origine. Dal suo racconto emergono la figura del nonno, le cene con i parenti, la giornata al mare a Jadida e il gelato insieme ai cugini in giro per il mercato, ma è contenta di tornare.
Non vedeva l'ora di recuperare il tempo perso a scuola per l'assenza protrattasi fino agli inizi di ottobre. Finalmente l'incontro con i compagni di classe e la vacanza è già alle spalle. La sua «prima vacanza in Marocco», scrive sul giornalino studentesco. L'espressione è significativa e non dà adito a dubbi: il futuro è qui, a Chiaramonte. In Sicilia hanno deciso di vivere i suoi genitori, qui sono gli amici e la scuola. «In Marocco ero contenta - mi confida - ma tutto è cambiato. Mi sentivo un po' straniera». Strano a dirsi, ma con i suoi compagni di classe non si sente estranea nemmeno quando assiste all'ora di religione come ad un'occasione per capire di più questa terra che l'accoglie.
Adil, vent'anni il mese prossimo, soffre invece di una nostalgia tale che neppure l'arrivo della madre, che per lui ha lasciato le vie familiari della casba di Casablanca, è riuscita a lenire. «Voglio tornare al mio paese» dice mettendo la mano sul cuore. «Qui sto bene, davvero - afferma rassicurando il suo prof - Ma mi sento sempre straniero». Nelle nostre conversazioni nessuno pretende "diritti". Quello che chiedono, infatti, non può essere rivendicato. È il bisogno di rapporti che li aiutino a divenire se stessi per il tratto di strada, breve o lungo, che facciamo assieme dentro e fuori le aule scolastiche.
Perché questo accada occorre fare la fatica di un cammino. È necessario il percorso di una reale conoscenza. Riconoscersi nella comune cittadinanza è l'esito di una storia, è il prendere atto dell'evidenza di una comune appartenenza. L'integrazione sta alla fine, non all'inizio.
Fuori da questa traiettoria si rischia, al di là delle intenzioni, di volere imporre, ideologicamente, per legge ciò che, invece, ha bisogno della traiettoria di tutta la libertà, quella nostra e quella loro.