Marco Lodoli.

«Io prof, Don Chisciotte e la candela di Geppetto»

La scuola riapre i battenti. Fiumi di ragazzi scivolano tra i banchi. Marco Lodoli, professore e scrittore, non ritrova i sognatori di trent'anni fa, quando iniziava a insegnare. Oggi ci sono ragazzi da «centro commerciale perenne». Ma nonostante tutto...
Paolo Perego

Cinquantatre anni. Trenta in cattedra. A parlare di Don Chisciotte, Dante, Checov. Nel 1980 era un giovane insegnante “idealista e sognatore”, con vespino e i capelli arruffati. Marco Lodoli, professore di Italiano in istituto professionale alla periferia di Roma e scrittore, oggi torna in classe. Una classe molto diversa da quella in cui era entrato allora. «Metto le mani sul vetro, cerco di sbirciare, ma è tutto appannato, non si vede niente», ha scritto in un editoriale su Repubblica del 9 settembre. «Parlo di letteratura, ma è una lingua perduta. Di cinema, ma i film che io vedo per loro non esistono». Gioventù bruciata? I ragazzi non sognano più come allora? Qualcuno suggerisce analisi e tentativi di soluzione. Risolvere i problemi. Eppure, dice lui, «uno ci prova ancora», alla faccia dei programmi scolastici ridotti di una scuola zoppicante, o degli studenti che preferiscono dormire in classe. «On the road, Cervantes, Moby Dick. Non mollo, continuo a indicare ai miei studenti un punto più alto, dove l’aria è migliore, dove si vede meglio il mondo».

Professore, perché lei non molla? Forse quello che ha scritto della sua prima ora di insegnamento («Ero convinto che la bellezza, la poesia e la ricerca di senso riguardassero tutti gli adolescenti del mondo») in fondo vale ancora oggi?
Sì. Anche se c’è stata una trasformazione in questi anni. L’adolescente da sempre è quello che cerca il senso, la bellezza, anche in modo confuso. Mentre l’adulto è quello inquadrato, incollato nella realtà. Oggi ai ragazzi - parlo di quelli che vedo io, nella scuola della periferia romana dove insegno - spesso manca questa dimensione ideale. È una trasformazione antropologica curiosa, perché uno poteva pensare che fosse quasi fisiologico che un giovane sognasse, sognasse “un mondo migliore”, come i ragazzi a volte scrivono nei temi, e che gli adulti si accontentassero di quello che c’è. E invece i ragazzi di oggi sono così condizionati che questo sogno è un po’ svanito.

Comunque un certo “desiderio” rimane. Forse sopito, ma c’è. Altrimenti “non mollare” non avrebbe senso...
Be', sicuro. E uno cerca di resuscitarlo. Anche se hai che fare con un onda d’urto, quella della società di oggi, che si è rafforzata negli ultimi tempi e che investe questi ragazzini di 13, 15 anni, e li frastorna... Dentro ognuno di noi c’è la “fiammella della candela di Geppetto nel ventre della balena”. Quella cosa che fa luce sempre e comunque. Ma è relegata lì da questo frastornamento continuo. Per capirci. L’altro giorno ho incontrato una mia alunna che aveva tatuato sulla schiena il marchio di un noto brand della moda. Non il nome del fidanzato, della squadra... No, il simbolo di un profumo. Perché? «Perché mi piace». È un mondo da “centro commerciale perenne”. Soprattutto le periferie, dove “ha grandinato” di più.

Per tanti il problema è trovare una soluzione. “Passione cercasi”, titolava un servizio su Sette, il settimanale del Corriere della Sera, di settimana scorsa. E invece lei propone “cose impopolari”, proprio partendo da quella "candela accesa dentro". Don Giussani la chiamava "cuore"
È vero, nonostante sia sempre restio a parlare di "questioni cardiache": in tanti abusano del cuore assimilandolo a un'immagine sentimentalistica da Grande Fratello. Io propongo l'impopolare Don Chisciotte, per esempio, perché è ciò che sono io, piace a me. Ci sono mille aspetti che mi riconfermano nella routine di fare le stesse cose senza sentirle noiose. Ogni epoca ha il suo punto dolente. Gli anni Settanta la violenza, la politicizzazione... Adesso il rischio è la spersonalizzazione. È per questo che uno deve fare appello a quello che c’è dentro ciascuno. Viviamo in un tempo in cui l’individuo è piallato da mode e tendenze. E lo spazio per quella ricerca di senso, che è tutto personale, e ridottissimo. È chiaro che c’è un conflitto in corso, tra chi, come me, porta avanti Don Chisciotte, Dante e la bellezza, e un mondo che ha depresso questo senso di ricerca culturale. Certo i semi che getti non finiscono in un prato. La desertificazione è partita e dilaga. Però uno insiste, guai a dargliela vinta.

E cosa succede a seminare lo stesso?
A volte i semi crescono. Spesso anche a mia insaputa, quello che ho spiegato magari a lezione uno se lo porta dentro per sempre. Tanto più accade se insegno quello che ha cambiato innanzitutto la mia di vita. Quando ero più giovane era più semplice, era più facile “stare” coi ragazzi. La differenza di età tra professori e alunni conta. Ci vorrebbero insegnanti giovani, in cui c’è ardente la passione giovanile. Invece assistiamo a collegi docenti che sembrano la bocciofila. Non che non sia possibile insegnare con lo stesso impeto a più di cinquant’anni. Servono tutte le generazioni, tutti i piloni del ponte. Ma è chiaro che insegnare a 25 anni è diverso. E gli insegnanti sotto i 30 anni nella scuola italiana mi pare siano lo 0,2 per cento.

Quindi, che un seme dia frutto è un problema di desiderio, non solo di risultati scolastici...
Non è un problema di genii o somari. Questi ragazzi sono persone. Sono vite. Uno deve insegnare così qualunque materiale abbia davanti. Sono tutte esistenze in trasformazione. Mai mollarle. E poi personalmente ho avuto molte soddisfazione da studenti che sembravano scarsi. Qualcuno potrà dire di no. Ma Dante, la poesia, la bellezza... Sono per tutti.