Alessandro D'Avenia.

Faccia a faccia con D'Avenia. «Un uomo vero»

«Come è nato il tuo libro? Perché scrivi? È difficile crescere?». Sono le domande che hanno segnato l'incontro di sessanta studenti del Centro di aiuto allo studio con il giovane scrittore. Cronaca di un pomeriggio fuori dall'ordinario

Mercoledì 24 novembre per Portofranco non è stato un giorno di normale routine: è arrivato in visita Alessandro D'Avenia, professore, ma anche scrittore di un prestigioso libro che ha colpito tutti, ragazzi e adulti: Bianca come il latte, rossa come il sangue. La giornata è iniziata normalmente, abbiamo fatto le nostre lezioni e poi alle 16 è iniziato l’incontro: sono venuti tutti i presenti a Portofranco, sia i ragazzi che gli universitari, e anche qualche insegnante adulto.
Non avevo mai visto D’Avenia dal vivo; pensavo che, per aver raggiunto quel successo, dovesse essere un uomo di una certa età, e che dovesse aver avuto molte esperienze nella vita per poter scrivere un libro così intenso e profondo. Invece, con grande sorpresa, ci siamo trovati davanti ad un giovane sui 30 anni, sorridente, pieno di vitalità e molto simpatico.
Una volta entrati in aula - eravamo circa una sessantina - Alberto, presidente di Portofranco, ha presentato lo scrittore, il quale con un gran sorriso ha chiesto se qualcuno di noi avesse domande da fargli. Ad aprire le danze, o meglio il bombardamento, è stata la fatidica domanda: «Perché hai scritto il libro?» Ha raccontato che è tratto da una storia vera: «Un giorno mentre facevo supplenza, un ruolo di scarso prestigio e non molto rispettato dagli studenti, mi venne in mente di sbalordire i ragazzi dicendogli che fare il supplente mi piaceva e gli ho chiesto: “Come vi vedete da qui a 15 anni?” Il bullo della classe, provocato da questa domanda, si è alzato e mi ha detto una cosa che non mi aspettavo. E cioè che la cosa che avrebbe sicuramente ricordato tra quindici anni era una compagna di classe dell’anno prima che piano piano avevano visto andarsene consumata da un tumore. Ciò che mi ha più colpito è stata l’espressione di quel ragazzo, che fino a pochi istanti prima mi sembrava un bamboccio, ora mi guardava con gli occhi di un uomo. L’idea del libro è partita così, anche se l'amore tra i due protagonisti non è mai esistito in verità».
Il titolo invece è stato scelto a partire da un altro episodio: ci ha raccontato che un giorno si era dimenticato che i suoi alunni avevano un tema in classe e così quando arrivò in aula si inventò un titolo di sana pianta, peraltro molto interessante: cosa rappresentano per te questi tre colori rosso, azzurro e bianco. Ci ha confidato di aver scelto questo titolo da una sua considerazione personale, a mio parere molto bella, che dovrebbero seguire tutti i professori, ovvero quella di non dare mai come compito ai propri alunni qualcosa che non si vorrebbe fare. Si è accorto, correggendo i temi, che tutti collegavano il rosso all’amore e quindi anche al dolore e l’azzurro finiva per rappresentare la felicità. Quanto scritto per il bianco, invece, rappresentò una novità: infatti molti dei suoi alunni collegavano questo colore alla malinconia, mentre secondo D’Avenia, il bianco, è un colore positivo, allo stesso modo in cui lo pensava anche Dante Alighieri.
Quindi scrivere il libro è stato come cercare una risposta alla domanda: «Perché il bianco è disperazione?» Nel romanzo il protagonista, Leo, 15 anni, vive il distacco dai genitori, comincia ad entrare in un mondo dove la libertà, se non si è accompagnati dai genitori o da persone che ci vogliono veramente bene, diventa una cosa tosta, soprattutto quando si ha a che fare con il dolore, la morte o la tristezza.
D’Avenia pone un mucchio di domande attraverso il libro: a cosa serve il dolore e chi alla fine vincerà tra il dolore e l’amore? Il bianco o il rosso? Il dolore è un’esperienza drammatica, ci ricorda che noi non abbiamo il controllo della nostra vita, noi per paura di vivere cerchiamo di controllare tutto ciò che ci circonda. La paura è in ogni cosa che facciamo, la vita fatta di prove, devi provare per perdere la paura. La vita ha bisogno di tempo per incarnarsi. Secondo un filosofo l’amore sovrasta il dolore, la risposta definitiva non cesserà mai di continuare.
D’Avenia, dopo aver parlato del libro, ci ha raccontato un aneddoto tanto divertente quanto strano, per mostrarci il dono della sua famiglia per la scrittura: sua sorella scriveva i temi subito in bella copia; per cinquanta minuti cercava in se stessa le parole chiudendo gli occhi, dopo di che iniziava a scrivere. Per lui la scrittura è proprio un dono, infatti è scrivendo che trova le risposte più profonde a ogni sua domanda. Grazie a questo sguardo e al suo amore verso la letteratura riesce a trovare un significato più grande e profondo anche nelle parole di normalissimo uso, quelle che usiamo normalmente senza pensare. Ciò che si è notato di più dialogando con D’Avenia è la sua serietà con la vita, non comune, ed è questo che lo porta ad avere un proprio fascino che colpisce, che spinge chi lo ascolta a cercare il bello delle cose.
Ad un certo punto della discussione un ragazzo lo istiga con una domanda semplice ma piena di profondo significato: è difficile crescere?
Secondo D’Avenia è veramente dura, ma è bellissimo. Ci dice che lui non cambierebbe nulla di ciò che ha vissuto, se potesse tornare indietro nel tempo, nemmeno le cose brutte che gli sono successe. Perché senza quelle non sarebbe cresciuto. Un giorno, quando capiremo chi siamo, allora sì che saremo veramente cresciuti.
Altra domanda: «Cos’è l’esperienza dello scrivere per te?»
«Scrivere è come avere dei ganci per riuscire ad afferrare le cose e dirle. Poiché quando impariamo a dire le cose non abbiamo più paura. Se alla fine di un tema non impari nulla da quello che scrivi, scordati di prendere un bel voto perché non sarà mai un bel tema». La scrittura è tirare fuori su un foglio bianco tutto noi stessi; la scrittura è l’andare a prendere quei punti dispersi, riprendere il centro della vita. Nella vita si cerca sempre la felicità e per non scoraggiarci o annoiarci bisogna sempre andare a cercare il nuovo che ci dia soddisfazione e interesse. Per aver un buon modo di scrivere bisogna dargli tempo, scrivere e lasciarlo lì e poi rileggerlo e stupirti di quello che scrivi. «E di Moccia? Che ne pensi?». «Moccia rientra nell’età dei giovani, il miglior libro che abbia scritto è il primo, che assomiglia un po’ alla Bella e la Bestia. Tuttavia ritorna a quando aveva 16/17 anni come se non avesse fatto alcuna esperienza adulta oltre quell’età. Infatti, non è per niente positivo che in ogni suo libro non ci sia mai un adulto che dà un giudizio o che guidi questi ragazzi che sembrano un po’ allo sbando, ma quei pochi adulti che sono presenti non solo non aiutano, ma odiano il mondo dei grandi e vorrebbero ritornare all'adolescenza, cosi facendo non aiutano i figli a crescere».
L’incontro è proseguito ancora per un po’ con i ragazzi che gli chiedevano dei consigli sul come affrontare la vita, ma lui si è saggiamente ritratto dicendo di non avere risposte pronte ma invitando tutti a vivere tutto quello che accade come un’occasione. Il pomeriggio oramai si conclude con la firma degli autografi e con tanti volti entusiasti per aver conosciuto non solo un grande scrittore ma anche un uomo davvero interessante. Portofranco augura buona fortuna nella carriera da professore e scrittore di Alessandro D’Avenia e spera un giorno di poterlo rivedere girare per le sue aule e di poterlo fermare a chiaccherare ancora un po’.
Mohamed, Milano