Studenti impegnati all'esame di maturità.

Maturi, cioè pronti all'imprevedibile

Esame di Stato al via per 500mila studenti. "Il Gazzettino" ha intervistato Mario Dupuis, fondatore di Ca' Edimar. Che, accogliendo ragazzi in difficoltà, sa bene cosa significa educare: «Far scoprire il cuore»
Alberto Beggiolini

Domani comincia l’Esame di Stato. Che, nonostante tutto, resta ancora oggi un demarcatore ideale tra adolescenze e “vita”.

Forse non esattamente “maturità”, professor Dupuis?
«Dipende. Se l’esame è affrontato con lo spirito giusto sì. Cioè, non pensando all’esame come ad un ostacolo da superare, ma come alla grande occasione a disposizione per fare sintesi di tutto quello che si è assimilato fino a quel momento nella vita».

Non solo nozioni?
«Per niente, non si tratta di bagaglio di informazioni, ma di criticità, di capacità di giudizio sulla realtà».

Certo che però all’esame di maturità l’analisi critica spesso lascia il tempo che trova…
«Mah, è anche vero che recentemente le famose “tesine” stanno assumendo sempre più valore ed incidono molto sul risultato dell’esame».

Tesine buttate giù spesso col "copia&incolla".
«In questo caso ovviamente non servono a nulla, ma un insegnante minimamente preparato lo scopre subito. Negli altri casi servono invece proprio a far emergere la capacità di giudizio».

Ma gli studenti ricevono una preparazione in questo senso?
«La scuola dipende da chi si incontra dentro, da che tipo di docente. Se il ragazzo incontra un docente appassionato alla sua umanità, allo sviluppo della sua ragione, del suo cuore, allora fiorisce e si apre, quasi indipendentemente dal suo quoziente intellettivo. C’è un’apertura del cuore che diventa apertura della ragione, curiosità, giudizio critico sulla realtà».

Al contrario?
«Se un insegnante non contagia nessuna passione, ma verifica solo le procedure di acquisizione di alcune nozioni, la ragione del ragazzo rimane bloccata. Oggi è frequente incontrare giovani proprio con la ragione “bloccata” ed un cuore triste. E siccome l’uomo è uno e non si può dividere, quando un ragazzo è scontento della sua vita, non ha passione alla ricerca del senso e non vede testimoni attorno a sé che gliela possano trasmettere, allora non avrà nemmeno voglia di studiare, gli basterà puntare al 5 e mezzo o al voto di consiglio».

Ossia studiare il minimo che consenta di andare avanti?
«La demotivazione dei giovani ad apprendere è un segnale di critica agli insegnanti, non al sistema, perché ogni docente in classe è solo, in prima persona, al di là di qualsiasi riforma, e i ragazzi s’accorgono se è uno "gli interessa" o no».

Resta la questione: chi insegna ad insegnare?
«C’è un problema legato alle competenze, chiaramente, ed è delegato alle università. Ma c’è anche un altro aspetto…».

La vocazione?
«Certo. È come se uno volesse fare un corso per padre-madre. È una componente di tenerezza e passione per il destino dei ragazzi, una non-estraneità alle loro vite che nessuno potrà mai insegnare. Senza di questo, si trasmettono nozioni, ma si fa perdere ai giovani una grande occasione: incontrare dei maestri di vita».

Maestri che non sembrano abbondare…
«Se una società si fonda su un popolo maturo, dove l’ideale è alto, l’esperienza umana è grande, allora si generano educatori. Se un popolo è sfiduciato, immaturo, sonnolento, critico e disorientato non è possibile. L’educazione, come dice spesso il Papa, è la prima emergenza».

E i giovani restano senza esempi importanti?
«Più che altro senza persone autorevoli. Gli esempi si possono vedere anche in un film, che bello se la vita fosse così, poi però il film finisce, e si resta soli come prima. Il ragazzo ha bisogno invece di un incontro con persone autorevoli per la sua vita, non che diano istruzioni per l’uso, ma che lo accompagnino in questa apertura della ragione, in una curiosità del cuore».

Non trovare simili appoggi può essere fonte di disagio?
«Il mondo giovanile è un mondo che sta gridando, anche in maniera disordinata, il bisogno di non essere lasciato andare allo sbando: il bisogno di incontrare adulti credibili, luoghi dove trovare uno sguardo che dia speranza ad una vita spesso vuota o riempita con l’istintività ormai selvaggia o il consumismo più sfrenato».

Si parla di insegnanti, ma si parla anche di genitori?
«Certamente, di tutte le figure che intervengono nella formazione di un ragazzo. Anche se l’età adolescenziale è quella che si caratterizza per un certo distacco dalla famiglia: un ragazzo si ritrova uno zaino con dentro tutto quello che la famiglia v’ha infilato, e comincia adesso a rovistarci con le sue mani e scegliere le cose su cui continuare. È questa la criticità».

Quindi il distacco dalla famiglia non è qualcosa da guardare con paura?
«La crisi è un momento fantastico, anche se drammatico. È il momento in cui il ragazzo comincia ad usare la sua libertà, anche se la società non abitua ad un uso corretto: la libertà spesso è ridotta ad arbitrio, e i ragazzi spesso sanno solo dire che la libertà è fare ciò che piace».

Sbagliato?
«Di per sé neanche tanto. Il problema è il criterio con cui si dice che una cosa piace o no. È dettato dai media, dalla mentalità dominante, o dal proprio cuore? Si tratta di desideri, ma se non c’è qualcuno che aiuti a capire cosa abbiamo davvero, è chiaro che vince il consumismo o il "così fan tutti"».

Non sembra solo educazione…
«L’educazione non può restringersi ad un insieme di regole, quella vera è merito di qualcuno che fa scoprire il proprio cuore. L’accanimento delle regole, che a volte sembra l’unica cosa che società o scuola sappiano fare, è in realtà un’ammissione di impotenza. Il ragazzo che sbaglia cambia solo se si accorge di avere dentro di sé l’energia per cambiare, se impara a conoscere il valore della propria vita».

Allora, chi è il vero educatore?
«È qualcuno che fa il tifo per il ragazzo».

Da “tifoso”, ai ragazzi ansiosi che domani inizieranno l’esame di maturità, cosa può dire?
«La maturità è il primo momento in cui si trovano davanti all’imprevedibile. Durante l’anno le interrogazioni si sa su cosa verteranno, alla maturità no. Da qui l’ansia, ma è un aspetto positivo: la vita è fatta molto più di fatti imprevedibili che altro. Se non si riesce ad accettare la sfida, non si va avanti».

Con la crisi attuale e gli ordini professionali superaffollati, meglio proseguire gli studi o no?
«Chi crede in se stesso, nei propri talenti, nella propria capacità critica ed accetta la sfida vada avanti. Ma fanno anche bene i ragazzi che vogliono invece sviluppare le proprie competenze nel lavoro. Vanno ovviamente considerati anche altri fattori, quello economici in primis».

Professor Dupuis, lei ha 61 anni: si ritiene “maturo”? Ha imparato davvero a dare il giusto valore alle cose?
«Mi ritengo maturo perché so che non mi faccio da me stesso, di aver dentro il criterio vero delle cose, che è il mio cuore, so anche che questo cuore lo posso tradire, ma che ho vicino una compagnia vera che mi ridesta quando lo tradisco. L’uomo immaturo è l’uomo che non appartiene a nessuno, e che di fronte alla vita si fa pesante diventa di una drammaticità sconfinata».

Eppure molti continuano a credere che essere maturi significhi anche poter fare da sé…
«Niente di più sbagliato. È questo l’errore dominante: uno deve fare da sé, e nessuno al posto suo, non è possibile delegare la responsabilità, ma il criterio nasce dal cuore e il cuore ha bisogno di un luogo vero dove essere custodito. I genitori custodiscono il cuore dei loro bambini, un insegnante educatore quello del ragazzo a scuola, gli amici veri quello dell’adulto».
(Da Il Gazzettino - Padova, 21 giugno 2011)