Il liceo "John Marshall" di Rochester (Minnesota).

La sfida di Sam

In un liceo di Rochester, un diciottenne si toglie la vita il giorno prima della festa di maturità. Il suo gesto sconvolge Jeffrey e altri suoi coetanei. Che in un volantino raccontano che cosa permette di «innamorarsi» anche del proprio bisogno
Linda Stroppa

Nel palazzetto dello sport tutto è pronto per la festa di proclamazione. Microfoni accesi e sedie sistemate. I maturandi sono schierati in fila, cappello e annuario in mano: aspettano la consegna del diploma. I genitori, più emozionati dei figli, fanno capannello tutto intorno. In America, la chiusura dell’anno scolastico è sempre un avvenimento, soprattutto per i maturandi che devono scegliere se iniziare a lavorare o andare al college. È così anche nel liceo "John Marshall" di Rochester, una cittadina di circa centomila abitanti nello Stato del Minnesota. Ma, alla festa dell’11 giugno, all’appello manca Sam.
Samuel, diciotto anni appena compiuti, «ragazzo brillante e studente modello», come dice chi lo ha conosciuto. Quel pomeriggio, avrebbe dovuto fare il discorso introduttivo, invece non si è presentato. Aveva fatto le prove il giorno prima: emozionato, sul palco, si era esercitato a parlare davanti a tante persone. Ma neanche gli elogi di professori e compagni sono bastati a colmare la tristezza che lo soffocava. Dopo le prove generali, ha preso la macchina ed è andato a casa di sua madre. Si è chiuso in camera. Poi ha preso la pistola.
«La sua morte mi ha squarciato», racconta Jeffrey, un ragazzo di Gioventù studentesca di Rochester. «Ho avuto subito bisogno di sapere perché. Il senso del suo gesto. Il senso della mia vita, ora. Sam era bravissimo, ammirato e stimato da tutti. Ma neanche questo ha potuto salvarlo. Davanti a questo fatto continuo a chiedermi: che cosa compie l’uomo? Cosa mi rende davvero felice?». Quid animo satis? Jeffrey se la ricorda ancora quella frase scritta sulla maglietta di una vacanza di Gs. «Appena ho saputo cos’era successo, ho pensato alle parole di san Francesco. E ho capito che non potevo ridurre quello che mi stava accadendo».
Il giorno dopo, quando Jeffrey e i suoi amici si trovano insieme a pregare, Sebastian, uno dei loro responsabili li sfida: «E voi, noi, cosa abbiamo da dire di fronte a quello che è accaduto?». Una provocazione che non lascia indifferenti e apre ancora di più la ferita: «Non volevo fermarmi a una reazione sentimentale», dice Sebastian: «Molti hanno provato a tamponare quel che è successo, perché guardare in faccia il dramma di un ragazzino di diciott’anni che si uccide è scomodo. In America, si fa strada sempre di più il rischio di “anestetizzarsi”».
Sono molti i tentativi di ridurre il dramma della libertà a un problema psicologico, o addirittura biologico: la nostalgia, la tristezza, perfino il desiderio insopprimibile di essere amati vengono ricondotti a dinamiche psichiche. «Ma io sono bisogno di infinito», continua Sebastian, «anche se tutto il mondo mi dice il contrario, cercando di soddisfarmi con risposte “usa e getta”». Negli States hanno persino inventato le happy pills, la ricetta chimica per la felicità: «Senza fare tanta fatica, si chiama uno psichiatra e lui prescrive gli antidepressivi giusti. Ecco la soluzione».
Ma pensando a Sam vengono i brividi: nessuna pillola può tenere. La sua morte scava dentro il cuore di ognuno, e non permette di barare. «Abbiamo pensato di scrivere un volantino», spiega Jeffrey: «Per imparare a giudicare la realtà e per rendere ragione della speranza che abbiamo incontrato: una Presenza che travolge la vita e fa nuove le cose». Come si legge nel foglio che hanno distribuito ai loro amici: «Solo Chi ha sfidato la morte e l’ha vinta può farci guardare a ciò che è accaduto senza paura». «Ora ne sono più certo», dice commosso: «Sto imparando a guardare i miei bisogni senza vergognarmi. Ad innamorarmi anche delle mie debolezze, perché c’è un luogo dove le mie domande trovano una risposta».