Una scena dello spettacolo.

Due giorni dove il futuro è già passato

Una quarantina di studenti italiani nel cuore della Russia. Reciteranno "Delitto e castigo". Ma già le prove sono un'occasione per «giocare ciò che abbiamo di più caro». La seconda puntata del loro racconto
Angela Perletti

È il tempo della libertà. Siamo qui, a Kemerovo (Siberia), da due giorni. L'occhio si sta abituando a questa città, fatta di silenzi, lunghi viali alberati, sguardi stranieri e stupiti della nostra presenza. In effetti, i russi sono molto diversi da noi: il loro volto pare sempre severo e scortese, non sono abituati a stare insieme, a lavorare insieme e parlano poco tra loro. Tra la gente, per le strade, si riconoscono i segni di una dura storia. Come quella statua di Lenin, nel mezzo della piazza, che con gesto imperioso indica il futuro: «Un futuro che è già passato», ci ha detto con un sorriso padre Sergij, rettore della scuola della Diocesi ortodossa.
E noi in tutto questo? Noi qui, per recitare Delitto e castigo, con la compagnia della scuola La Traccia. Hanno già appeso i manifesti. Ci hanno mostrato il teatro, culla di questo strano avvenimento. E alcuni di noi lo stanno allestendo. Altri, come me, hanno invece studiato. Non è stato affatto un di meno. È il tempo della libertà, dicevo. Sì, perché non siamo costretti a nessuna regola. Ognuno si gioca ciò che ha di più caro. Ognuno decide se leggere L'étranger di Camus, oppure no. Decide se fare una passeggiata lungo il fiume Tom, oppure no. Sceglie di cantare sulle scalinate del teatro, oppure no.
Ma che guadagno c'è nel dire "no"? Perché dicendo "sì" io mi sono scoperta trasportata da un romanzo francese, affascinata dalla nebbia sull'acqua, risvegliata da quei due ragazzi che si sono intrufolati nel gruppo per ascoltare i nostri canti e ci hanno domandato: «Quando possiamo rivedervi?». Insomma, ma che guadagno c'è a dire "no"? Poi, un'altra cosa, è sicuramente l'attesa. Intendo quella rispetto allo spettacolo. Pian piano si svela, appena percettibile, ciò per cui siamo qua. L'ho sentito nel racconto di chi, dopo una giornata tra chiodi e martelli, dice del volto sorpreso dei tecnici russi di fronte ai ragazzi che montavano la scenografia: sono abituati a lavorare, sì, ma da soli: noi, un fatto straordinario.