Non si può insegnare senza educare

Due giorni di lavori nel capoluogo emiliano per centinaia di docenti e dirigenti scolastici di varie associazioni. Tra botteghe, team work e dialoghi. Come quello con Carrón, sulle sfide del vivere "tra i banchi"
Fabrizio Foschi

Due intense giornate di lavoro quelle che hanno radunato a Bologna centinaia di insegnanti e dirigenti della scuola italiana, e che hanno offerto una rassegna di tutti i temi caldi del momento e rilanciato i partecipanti a cogliere seriamente le sfide educative di oggi.

La “Convention Scuola” dell’associazione Diesse di sabato 10 ottobre ha raccolto educatori provenienti da tutte le regioni italiane, impegnati a riprendere le ragioni di fondo del lavoro dell’insegnante, suggerite nel binomio “Incontrare ed educare l'umano” che faceva da titolo all’appuntamento.

Interessante è stato lo spunto che ha dato inizio alle considerazioni del mattino, tratte dalla esperienza di una scuola vissuta a contatto continuo con le nuove generazioni. Il loro problema, come è emerso, consiste nella difficoltà di giudicare ciò che provano. Non mancano stimoli di ogni genere, ma manca la sintesi, la capacità di riportare tutto ciò che vivono alla loro persona, alle domande di senso che hanno, spesso vissute in modo individualistico. La scuola è un luogo in cui tra maestri e allievi le parti facilmente si rovesciano e, così, il docente che desidera trasmettere conoscenza capisce che non può farlo se non aprendosi agli incontri che arricchiscono la sua professione. Il tema dell’incontro è fondamentale perché contribuisce alla costruzione di una “soggettività relazionale” che lega alunno e docente in un percorso dove i problemi diventano occasioni di maturazione per entrambi.

È in questo contesto che, come spiegato durante l’assemblea al Teatro Antoniano, si colloca il lavoro di Diesse, un aiuto a chi opera nella scuola ad affrontare con spirito critico il contesto culturale e normativo in cui si svolge l’attività didattica o la progettazione delle offerte formative. E gli strumenti non mancano. Da contributi di informazione e giudizio sull’attualità scolastica (la legge sulla Buona Scuola, la valutazione dei docenti, il “pof” triennale), alla diretta interlocuzione con il Ministero della Pubblica Istruzione e le istituzioni scolastiche. Sempre secondo alcune linee operative ben definite, che trovano la loro espressione più compiuta nella cosiddette “Botteghe dell’insegnare”, comunità stabili di docenti che si aggiornano in maniera continuativa condividendo i propri percorsi professionali.

Non a caso proprio una delle novità raccontate a Bologna è la nascita dei cosiddetti “Team work”, interventi circoscritti che coinvolgano i colleghi su interessi e problemi sollevati di volta in volta dalla creatività e dalla responsabilità di alcuni.

Il pomeriggio del sabato trasferimento tra le aule dell’istituto Giosuè Carducci, per dedicarsi a una serie di attività formative. I locali della scuola primaria bolognese si sono prestati ad accogliere i lavori di oltre venti gruppi, tra Botteghe (dalla Filosofia all’Italiano, dalle Scienze alla Verifica e valutazione) e Team work (dai percorsi nell’arte fotografica contemporanea alla “governance” delle scuole).

Domenica mattina questo insieme di rapporti, di contatti e di lavoro è confluito nel Convegno pubblico “Insegnare oggi, nuovi contesti e nuove sfide”, promosso da CdO opere educative, Diesse, Disal, Il Rischio Educativo, un pool di associazioni che, da punti di vista diversi ma sempre convergenti, sostengono le iniziative educative di insegnanti, dirigenti e gestori di scuole paritarie. Con loro, un’altra ventina di sigle scolastiche che hanno aderito. Cuore del raduno nell’Aula magna dell’Università di Bologna è stato il dialogo con don Julián Carrón, docente di Introduzione alla teologia all'Università Cattolica Milano e presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, il cui intervento è stato preceduto dal saluto del rettore uscente dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi, che ha insistito sulla scuola come ambiente di «apertura al possibile» e «luogo di formazione del pensiero critico».

Carrón ha sviluppato un’articolata riflessione rispondendo a quattro domande. La prima ha riguardato proprio lo smarrimento della società adulta di fronte al disagio e alla provvisorietà dei giovani. «Come leggere tale situazione?». Il sacerdote spagnolo ha risposto che il mondo giovanile soffre di una debolezza affettiva, rispetto alla quale sono superflui i richiami etici di certo mondo adulto. Moltiplicare le regole significa, infatti, non comprendere l’origine del disagio: «Se la realtà non è più una evidenza che si impone, di conseguenza sarà debole l’energia conoscitiva dei giovani». La cultura dominante che ha svuotato l’io dei giovani di qualsiasi responsabilità nasconde quello stesso “io” agli occhi degli adulti, che - non sapendo a chi rivolgersi - delegano il loro compito alle tecniche psicologiche. «Invece l’io c’è, eccome, e non è riducibile alle sue reazioni psicologiche. L’io è costituito per natura dalle esigenze elementari e per essere rimesso in moto deve essere sfidato sul suo stesso terreno, incontrato, provocato dalla realtà presente di cui fanno parte anche gli adulti». La capacità di sfidare i giovani nasce da questo giudizio, da questa posizione culturale. La speranza è che ci sia qualcuno che ricominci da qui, da questo sguardo sulla persona.

Ma allora, la seconda domanda, qual è lo scopo della scuola? La risposta è stata tranchant: il compito della scuola è insegnare, trasmettere alle nuove generazioni la ricchezza accumulata dal passato. Poi, il ragionamento di Carrón si è ampliato: «Come è possibile una trasmissione?». Occorre un metodo per giudicare, rispetto al quale né l’insegnante, né l’alunno possono barare. Perché il metodo, come insegnava don Giussani, «è una ipotesi che si può verificare nella esperienza. La realtà si rende trasparente all’uomo nell’esperienza ed è nell’esperienza del nesso di un aspetto della realtà con il tutto che si impara». I nuovi ambiti del sapere, perfino quello ecologico, oggi così sentito, sono il frutto originariamente di una preoccupazione rivolta alla totalità del dramma umano. L’insegnante è “un uomo che insegna”, non un funambolo che distrae. La sorgente del suo modo di comunicare è la sua stessa umanità sfidata da ciò che insegna.

È stato il terzo quesito ad approfondire quest’ultima sottolineatura: che rapporto c’è tra educazione e insegnamento? La risposta è arrivata in un esempio. Come possono dei giovani introdursi nella comprensione di un poema amoroso? Bastano dati di tipo sociologico o filologico per capirlo? O, piuttosto, è fondamentale capire l’esperienza umana che sta dietro il testo, cioè saperlo riconoscere come espressione di una esperienza? «Vivere una esperienza umana è la prima condizione per capire. Per capire occorre vivere». Dal poema amoroso al “libro dei libri” (la Bibbia) è la totalità dell’esperienza cui l’io partecipa che permette di comprendere una materia: «In ogni conoscenza è presente l’io, così come è presente l’oggetto. Perciò la trasmissione di un contenuto s’identifica con l’esperienza di una persona che vive». Per questo non c’è possibilità di insegnare senza educare. E questo vale per ogni tipo di scuola e ogni materia insegnata.

Ha chiuso il cerchio la quarta domanda: come raggiungere una unità tra le componenti della comunità scolastica - docenti, dirigenti, famiglie, studenti - e quale può essere il ruolo delle associazioni? Sulla prima questione Julián Carrón ha ripreso il suggerimento del Papa, per cui per educare un fanciullo occorre “un villaggio”. È giusto, ha ribadito, e per farlo occorre «che l’unità significhi unità di sguardo e di giudizio. Altrimenti si scaricano le colpe degli uni sugli altri». Sulla seconda questione il sacerdote non fa sconti: «Il lavoro delle associazioni è un lavoro prezioso, ma da non ridurre ad una rappresentanza». È piuttosto una compagnia dove i tentativi si verificano in un sostegno reciproco. Proprio come si è visto nella due giorni di Bologna.