La gita durante l'Equipe di GS a Cervinia.

Serve solo vivere

Ai primi di settembre, a Cervinia, cinquecento ragazzi e professori di Gs si sono trovati per l'annuale Equipe. Tre giorni di lavoro, dialogo e camminate. Con una sorpresa: un botta e risposta di due ore con Julián Carrón, «da uomo a uomo»
Paolo Perego

«Il Cervino non è mai stato così bello». Occhiali da sole, bermuda e scarponcino da trekking. La felpa in vita, mentre in piedi su una roccia lo sguardo corre sulle cime in una mattina di fine estate. Punta Cristina, Matterhorn, Cime Bianche, Testa Grigia… Sono lì da millenni. Eppure passare vicino a quel ragazzo di quindici, sedici anni e sentire quelle parole è una luce che si accende. Sono lì da millenni. Ma «non sono mai state così belle».

Che sia un pensiero diffuso lo leggi anche sulle facce dei cinquecento tra ragazzi delle superiori e qualche professore che se ne stanno seduti nell’erba a cantare, guidati da un piccolo coro. Belle rose, Il testamento del capitano, Ai preat… Occhi e voci che mostrano quanto il cuore sia «pieno», come ha detto qualcuno di loro uscendo solo due ore prima dal salone dell’hotel Cristallo di Cervinia.

È sabato 3 settembre. Il giorno prima da tutta Italia, Portogallo, Spagna, Germania, Belgio, Gran Bretagna, Lituania, Polonia e altri Paesi, sono arrivati in alta Valtournenche gruppi di ragazzi di Gioventù Studentesca per l’Equipe di inizio anno, una tre giorni di “lavori” per i responsabili di chi vive l’esperienza del movimento tra i banchi di scuola.

Prima la cena insieme, fatta anche di abbracci e saluti tra chi non si vede da tanto tempo o neppure si conosce. Quindi, una breve introduzione la sera, tra i canti. «Siamo qui a sfidarci ancora su quello che abbiamo vissuto al Triduo di Pasqua, quando abbiamo parlato di un amico che non ci lascia mai soli», spiega Alberto Bonfanti, responsabile dei giessini. Oltre duecento le lettere e i contributi che i ragazzi hanno scritto: «Tutti raccontano della difficoltà del vivere, di un contesto pieno di incertezze e di vuoto. E di inadeguatezza, come se nulla potesse mai soddisfare il desiderio che abbiamo. Siamo venuti qui con una domanda: in quello che viviamo, abbiamo fatto o facciamo “l’esperienza di un amico che non ti abbandona”?».



















Proprio da qui si apre, il giorno dopo, l’assemblea. A sorpresa «è venuto a trovarci un amico», annuncia Alberto. Sarà don Julián Carrón a rispondere alle domande dei ragazzi. E inizia sferzando gli ultimi torpori del mattino: «Avete trovato una risposta alla vostra domanda nelle Lodi?». Silenzio. Un tentativo. Ma dal palco la guida di CL incalza: «Possiamo cominciare la mattina senza esserci in quello che facciamo. E allora nulla serve allo scopo di cercare qualcuno all’altezza del nostro desiderio». E poi richiama san Paolo: «“Mi protendo nella corsa per afferrarlo, io che sono già stato afferrato da Cristo”. Ecco! Non soltanto l’aveva afferrato, ma aveva scatenato tutto il suo desiderio. Un amico, che non cancella il desiderio».

Parla dritto al cuore dei ragazzi ormai incollati a quello che sta accadendo in sala: due ore intense di dialogo serrato con uno «che ci tratta da uomini», dirà qualcuno uscendo.

Lo ha fatto con Maria di Milano, per esempio, che ha raccontato di una conversazione con una ragazza che ha smesso di credere, sostenendo che la religione è una bugia inventata dagli uomini: «Perché dopo la morte si scompare. “Io non ho paura di morire. Non ci sarò più”, mi ha detto. Ma io voglio credere che se abbiamo questo desiderio che le cose non finiscano ci deve essere qualcosa che lo soddisfi. Solo che poi, nei giorni dopo, la sua posizione mi è sembrata più difendibile e meno traballante della mia…». «Ma cos’hai tu nella tua esperienza che può rispondere a questa domanda? Tu vieni qua perché io ti risponda, ma non ho intenzione di farlo. Possiamo scoprirlo insieme», provoca Carrón. E torna a domandare. «Ma perché tu hai speranza? Per un sogno?», chiede ancora il sacerdote: «Vedi? Per un fatto, Maria. E non ce ne rendiamo conto. E non capiamo la diversità con quella amica».

E invita tutti a sfidarlo seriamente: «Guardate che ne ho bisogno anche io, per andare al fondo di quello che vivo». Maria non si fa pregare: «Ho pensato: magari anche questa è un’illusione, un modo bello di stare insieme, ma poi finisce. Potrei andarmene da Gs e vedere come sto senza…». «E allora?», fa lui. «Non riesco». «Non è che non voglio risponderti, ma non ti servirebbe», replica Carrón: «Cosa ci è capitato nella vita. GS, diceva don Giussani, è la verifica di questo». È un richiamo continuo a andare al fondo. «Come faceva Gesù: “Volete andarvene anche voi?”. Questo è esaltante, perché allora, tutto quello che facciamo nel vivere è per scoprire qualcosa che già c’è nella nostra esperienza».





















Anche con Elena, di Rimini, la dinamica del dialogo è la stessa. Al microfono racconta la sua estate a studiare inglese in Irlanda. «All’inizio mi sentivo sola. Volevo solo tornare. Ma la realtà era quella». Tutto cambia quando, dice ancora, «non dovevo fare altro che essere me stessa. E le persone intorno, senza che facessi nulla di particolare, hanno iniziato a notare in me qualcosa di interessante». Due ragazzi turchi, per esempio, musulmani. Elena racconta di sé, del suo essere cristiana, dell’incontro e della vita di GS. Omar, uno dei due, le dice: «Vedi, è proprio l’incontro vero di cui parli che ci manca». Un dialogo che si ripete anche con un ragazzo siciliano, che Elena invita a Scuola di comunità e che poi la ferma: «Ma davvero vi sentite amati? Anche io voglio sentirmi così, vivere come voi».

«Cosa ti ha fatto capire tutto questo? Cosa hanno visto quelle persone?», replica Carrón. È un tira e molla di domande e risposte. Elena arriva al punto: hanno visto uno sguardo: «E da dove nasce?», rilancia ancora il sacerdote: «Un amore, dici? Ma se dite queste cose, vi dicono che siete matti! Non staccatevi di un millimetro dall’esperienza che fate. Quello sguardo te lo ritrovi addosso. Ma da dove arriva?». Senza respiro per altri dieci minuti di botta e risposta. «Il tuo sguardo è diventato così non solo perché hai incontrato qualcuno, ma perché lo hai seguito. Senza andare lì, in Irlanda, senza esserti scontrata con tutti quanti, diversi da te, non ti saresti resa conto della diversità che porti, della novità che l’incontro che hai fatto introduce nella vita. Quando il Papa ci dice che ci conviene “uscire”, lo fa per farci avere la conferma di quello che ci è capitato. Non sono istruzioni per la missione le sue». Come gli Apostoli: «Lui gli era entrato dentro fino al midollo. E sono andati in giro per il mondo». Per vivere loro, non appena per raccontare.

Tocca a Giovanni, con il suo desiderio di essere «per sempre felice». Carrón lo invita a guardare a questo suo desiderio, perché «è Dio ad avertelo messo dentro. Ed è Dio che lo esalta. Un tu diverso da te. Per questo abbiamo bisogno di un incontro. Per questo è diventato carne. E nella Chiesa permane». E ancora: «Non c’è altro modo per vivere che cercarlo giorno e notte». È uno spettacolo di bellezza ciò che accade in quel salone di Cervinia, mentre Carrón si butta in quella arena piena di domande. Quelle di Edoardo, di Stella, di Nicolas.





















«È come allora, in Palestina, con Gesù che sfidava il cuore di chi aveva davanti. “Erano le 4 del pomeriggio”», dice Nicoletta, insegnante, mentre poco dopo l’assemblea si sale verso il Cervino per la gita.

In funivia, e poi su, tra il pranzo e la messa, a regnare è la gratitudine per ciò che sta accadendo. E sarà lo stesso dopo la serata di canzoni proposte da alcuni giessini, quelle che si ascoltano oggi alla loro età, Coldplay, Amy Winehouse, Brandi Carlile, in un percorso attraverso le domande e i desideri del cuore umano in un mondo pieno di paure e di incertezze.

E proprio partendo da questo mondo difficile, don Pierluigi, che già aveva guidato il Triduo pasquale, ha lanciato il lavoro della Scuola di comunità che attende i ragazzi quest’anno, con strumenti nuovi, per «aiutarci a vivere». Non è questione di coerenza, di seguire delle regole. È solo un “sì”, quello di Pietro, pieno di limiti e inadeguatezza, ma tutto preso da «quella simpatia umana» che quell’uomo portava con sé, quello che permette un cammino, ha detto ancora don Pigi, rilanciando la sfida dell’assemblea del mattino. «La vita di Gs è la verifica di questo. E lo strumento è il raggio, la Scuola di comunità». Non è un discorso: «Quello che vi stiamo proponendo oggi è una lotta che vogliamo accendere nella vita per capire se vale la pena essere cristiani in questo momento storico». Ovvero la possibilità di «una conferma nell’esperienza». Come diceva Carrón.

Non è una novità quella che i ragazzi si sentono proporre. «Gs è sempre stata questa vita», spiega Alberto presentando un volume sulle origini del movimento di CL (Gioventù Studentesca, Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Studium). È la storia dei primi anni. Dei primi raggi, della preoccupazione di don Giussani che ogni aspetto della vita di quei ragazzi che incontrava, ma anche della sua, altro non fosse che quella “conferma nell’esperienza” a cui, più di sessant’anni dopo, sono chiamati anche i ragazzi di Cervinia. «Solo da questo sono nati gesti e strumenti. Non come schema. Il fondo comune, la caritativa, i gruppi culturali… E le prime missioni in Brasile». Non c’è da inventare nulla, insomma. Serve solo vivere.

«Quello che ci è chiesto è usare il cuore, giudicare per vedere se nella nostra esperienza si è posato lo sguardo di Gesù», ha detto ancora don Pigi: «L’insistenza con cui continua a chiederci “mi ami tu?”», in ogni istante, solo «questa domanda è in grado di infiammare il nostro cuore, come nessuno a questo mondo». Proprio come davanti al Cervino, in una mattina di fine estate.