Giovani e politica, il 4 marzo al voto

Sono i ragazzi del '99 e del 2000. Quelli che non sono mai andati alle urne. E ci andranno a breve. Tante domande in un pomeriggio a Portofranco. Per tutti, non un nome su cui fare una croce, ma un lavoro. Da fare insieme
Paola Bergamini

«La nostra amicizia ci aiuta a prendere sul serio quello che accade. Ora ci sono le elezioni. E visto quanti siete, mi sembra che la cosa susciti un certo interesse!», esordisce Alberto Bonfanti, responsabile di GS. Infatti, le sedie non bastono per gli oltre 300 ragazzi che affollano il salone di Portofranco, il Centro di aiuto allo studio a Milano, per l’incontro sul voto del 4 marzo. Quasi tutti diciottenni, tutti al primo voto.

«Ma secondo te, alla fine verrà fuori cosa votare?», chiede una biondina alla sua vicina. La risposta arriva direttamente dal palco. Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, mette subito in chiaro le cose: «Io non sono qua per dirvi chi votare. Né per una lezione. Lavoriamo insieme, per capire. Avanti con le domande».

Qualche secondo di indecisione, poi Matteo si avvicina al microfono. «Vedo solo una politica di contestazione. Mi sono informato, un tempo non era così. Un’espressione mi aveva colpito: “educare il popolo”. Ma cosa vuol dire?». Vittadini mette sull’avviso: quella frase può essere ambigua. Anche i grandi dittatori l’hanno usata. «Vi spiego come ragiono io. Prima di tutto vorrei che l’Italia non si riducesse a Paese sottosviluppato. Con un tasso di disoccupazione giovanile che sfiora il 30%, il rischio è che la vostra generazione sia costretta a emigrare. Esattamente come i vostri bisnonni».

Studenti al Centro di aiuto allo studio Portofranco

L’Italia rimane il Paese europeo che cresce di meno. «Il punto centrale è la ricerca del bene comune per uscire da questa crisi». E rivolge ai ragazzi la domanda: «Ma qual è il criterio per capire chi desidera il bene comune, arrivando anche al punto di rinunciare a qualcosa di sé pur di lavorare insieme?». Michele, ultimo anno di liceo scientifico e rappresentante alla consulta nazionale degli studenti, butta lì una risposta: «In un rapporto». Non basta. Vittadini incalza: «Mettete insieme i pezzi». Tra le file, i ragazzi commentano. È un dialogo aperto.

Michele riprova: «Il paragone con il cuore». Ecco, il secondo punto. Si procede per tentativi di avvicinamento. «Cosa vi dice il cuore?». Tecla precisa: «Ciò che corrisponde al mio desiderio di giustizia, di felicità. Ciò che può far star bene». Iniziano a delinearsi i criteri per giudicare. Non seguire quello che dicono gli altri, ma paragonarsi. Ma “bene comune” e “cuore” come si ricollegano? Continua il presidente: «Guardate alcune esperienze come il Banco Alimentare, Portofranco stesso, ma nella storia italiana ce ne sono tante altre come le Casse di risparmio o ancora l’opera Don Gnocchi. Ecco, sono realtà nate dal basso, non progettate statalmente. È il concetto di sussidiarietà. Che funziona. Quando, invece, lo Stato si è fatto promotore di alcune iniziative di aiuto o di risposta al bisogno facendole cadere dall’alto, è stato lo sfacelo. Quali partiti usano questo criterio?». Altro tassello.

Luca ha una passione per la politica e chiede: «Un mio compagno di classe mi ha detto che vota 5 Stelle seguendo i genitori. A me non basta. Voglio proporre in classe una discussione coinvolgendo la prof di filosofia. Ma ho una domanda: di fronte al panorama politico cosa possiamo fare noi giovani?». Paragonarsi vuol dire innanzitutto informarsi, coinvolgendo i compagni per fare un sforzo per capire, senza subire passivamente le decisioni altrui. O non decidere affatto. «È perfetta l’idea di Luca. Organizzare in classe dei momenti informativi su domande concrete. Del tipo: qual è la nostra situazione economica? Perché è così importante l’Europa? Io sono dell’idea che l’Italia si può rimettere in pista se i giovani sono determinati. Non subiscono. Diventano protagonisti della propria vita. E lo puoi fare già in classe».



Elena è scettica: «Sì, va bene… ma io leggo le proposte elettorali e non mi sembra di vedere persone che hanno a cuore quello che ci siamo detti». Brusio di assenso che si interrompe quando Vittadini, spiazzando tutti, propone: «Vi lascio questa sfida: trovate cinque punti a vostro avviso fondamentali. E poi li inviate. Ma è necessario avere le idee chiare. Dopo vi dico a chi indirizzare le email. Ci rivediamo fra quindici giorni e ne discutiamo». Matteo ha pronta l’obiezione: «Mettiamo che vince chi ho votato io. Se poi però non tiene fede alle promesse? Rimango fregato!». «Questo non è un ostacolo ad andare avanti», risponde Vittadini. E fa un esempio: «Nel 1987 c’è stato il primo convegno sulle scuole libere. Negli anni abbiamo avuto rapporti con i vari ministri dell’Istruzione. Tanti apprezzamenti, di fatto pochi risultati concreti. Ma siamo andati avanti. Se tu esisti e persisti, le cose possono cambiare. L’importante è non sparire. Solo così si ricostruisce un tessuto sociale. E di esempi in giro ce ne sono tanti. Vi invito a cercarli». La sfida è lanciata. Margherita rimane dubbiosa: «A me le cose vanno bene. Ho una bella famiglia, frequento la scuola libera che volevo. Non capisco questo interesse al bene comune. Cioè non mi tocca, la politica non mi tocca». «E se il prossimo governo abolisce le scuole paritarie?», conclude Vittadini. «Oppure, come è stato proposto, si decide di eliminare la storia dai programmi scolastici? È illusorio pensare che la politica non c’entri con il nostro vivere quotidiano. Ci vediamo quindi tra quindici giorni e mi direte. Buon lavoro».

Sulle scale un ragazzo dice all’amico: «Voglio inviare un WhatsApp al gruppo della classe con la proposta di parlare delle elezioni. Sono sicuro che la prof di filosofia ci sta. Sinistrorsa, ma intelligente. Anzi, lo faccio subito. Aspettami giù». «Quasi quasi ci provo anche io». Poco più in là, un’insegnante commenta: «Questo incontro è servito soprattutto a me». Il lavoro è già iniziato.