Rimini. Novecento ragazzi per parlare dei "nuovi italiani"
Un incontro nato grazie alla mostra del Meeting 2017, organizzato dalla Consulta degli studenti e dall'Ufficio scolastico provinciale. Le voci di Luna, Mina e Marouen. E di Valeria Kadija, madre di uno degli attentatori al London BridgeNovecento studenti delle scuole superiori, tre ore di dialogo intenso. La voglia di capire, di dire le proprie ragioni e di ascoltare quelle dell’altro. Ma soprattutto la disponibilità a dire di sé, a mettere in gioco l’esperienza e a lasciare fuori dal gioco le ideologie. Accade a Rimini, al Centro Tarkovskij, in un incontro organizzato dalla Consulta degli studenti e dall’Ufficio scolastico provinciale: “Muri o ponti, l’integrazione come possibilità”. Si parte dalla presentazione della mostra sulle “nuove generazioni” inaugurata al Meeting di Rimini 2017 e che sta girando molte città d’Italia: nessuna tesi da dimostrare, piuttosto il tentativo di raccontare un’Italia che sta cambiando e che diventa sempre più multietnica. Non solo perché arrivano migranti, ma soprattutto perché i loro figli sono nati e cresciuti in quello che considerano il loro Paese: un milione e mezzo di “nuovi italiani”.
Luna è una di loro. Una vita segnata da incontri decisivi: il padre, marocchino, che le ha trasmesso l’orgoglio della sua cultura e della sua fede musulmana; l’insegnante di diritto che tre anni fa, quando il padre muore e lei va in crisi e vuole ritirarsi da scuola, la convince a continuare «perché tu vali»; l’amicizia con la preside dell’istituto tecnico di Fornovo di Taro, e oggi con tante matricole di Scienze giuridiche all’università di Milano Bicocca. Luna, un’italiana o una marocchina? «Entrambe. Non voglio rinunciare a niente di quello che ho ricevuto. E non scandalizzatevi se vi dico che partecipando a una messa ho riscoperto le radici della mia fede musulmana. L’identità non si costruisce chiudendosi dentro un castello e alzando il ponte levatoio, si costruisce se teniamo la porta aperta, se teniamo acceso il desiderio di conoscere e di conoscerci».
Mina, di origine egiziana, dal palco legge una poesia di Ungaretti, In memoria, che racconta la vita di Mohammed Sceab, un amico arabo dello scrittore, esule in Francia e nel proprio Paese, un giovane rimasto senza patria, vittima di una crisi di identità – cambia il suo nome, si fa chiamare Marcel - che lo porta fino al suicidio. «Non possiamo cancellare ciò che ci costituisce, dobbiamo riguadagnarlo con la nostra libertà. E non dobbiamo avere paura dell’altro, l’altro è parte di noi».
Uno studente di Rimini chiede cosa fare per superare gli stereotipi sull’immigrazione e per estirpare la malapianta del razzismo. Marouen – italo-tunisino, uno dei testimonial della mostra – dal palco s’inventa una risposta gestuale: accartoccia il foglio sul quale stava prendendo appunti. «Su questo foglio ho scritto le storie che sto ascoltando stamattina. Se lo trasformo in una palla di carta sono uno stupido, perdo tutta la ricchezza di quello che ci stiamo dicendo, perdo la ricchezza delle nostre umanità. Ma questo è disumano… Chi è lo straniero? Non solo quello che viene da lontano o che ha un colore della pelle diverso dal tuo. Può esserti straniero il tuo compagno di classe di cui conosci solo il nome e poco altro. Dobbiamo incontrarci, vincere la tentazione sempre presente dell’estraneità, toglierci la maschera, scoprire il positivo che c’è in ognuno di noi. Se ci conosciamo, impariamo a stimarci».
Cala un silenzio quasi surreale quando prende la parola Valeria Kadija Collina, madre di Youssef, il giovane italo-marocchino che faceva parte del commando che il 3 giugno 2017 ha ucciso otto persone nell’attentato al London Bridge. La voce è rotta dalla commozione che contagia i presenti, nel cuore porta la ferita ancora aperta per la scelta di morte di suo figlio «che nessuna fede religiosa può giustificare», per quel suo progressivo irrigidirsi dentro lo schema di una serie di precetti dedotti meccanicamente dal Corano senza usare la ragione. «Youssef si era inaridito, aveva ossificato la fede, si era chiuso in una gabbia tappezzata di divieti e di prescrizioni rassicuranti che gli risparmiavano la fatica di misurarsi con la realtà. Aveva rinunciato alla ricerca della verità e della bellezza e si era illuso di trovare il suo compimento raggiungendo un Paradiso immaginato. Cari ragazzi, non chiudetevi nella gabbia, non stancatevi mai di cercare». L’esistenza di Valeria è segnata dalla ricerca: gli anni della contestazione, l’utopia del comunismo, il femminismo, il teatro… «Ho sempre cercato l’assoluto nelle cose che facevo. E ho scoperto che niente mi bastava, fino all’incontro con Dio nell’islam. Ma il mio islam non è quello di Youssef, non voglio rinunciare a usare i due regali che Dio ci ha fatto: la ragione e la libertà. E non voglio smettere di cercare, perché ho capito che la verità è qualcosa di grande che non possiamo imprigionare nelle nostre fragili mani: anche per questo ho conosciuto amici cattolici che come me vivono l’esperienza religiosa come un tesoro che rende la vita più umana, persone con le quali posso camminare e costruire un mondo più umano».
«Ho sempre cercato l’assoluto nelle cose che facevo. E ho scoperto che niente mi bastava, fino all’incontro con Dio nell’islam. Ma il mio islam non è quello di Youssef, non voglio rinunciare a usare i due regali che Dio ci ha fatto: la ragione e la libertà»
Il dialogo continua, le domande dal pubblico non si fermano più. Bisogna chiudere perché il tempo a disposizione è scaduto, ma dal pubblico si alzano proteste: «Noooo, vogliamo andare avanti». Parlano anche giovani di seconda generazione raccontando dubbi e paure, Luna, Mina e Marouen rispondono mettendo sul tavolo la loro vita. Niente ricette preconfezionate, niente slogan politicamente corretti, solo esperienze. Una prof si commuove: «Guarda come si parlano, sembra l’alba di un mondo nuovo».