In rete, ma senza rete

La scuola che chiude e viene stravolta. Cambia la prospettiva di tutto, come succede in una videolezione. E il punto non è più “tenere” i ragazzi, ma «la loro libertà di starci». Su "Tracce" di Aprile, la testimonianza di una giovane prof
Paolo Perego

«Proprio adesso che avevo trovato un equilibrio perfetto. Che le cose funzionavano bene, in tutte le classi. Programmazione rispettata, verifiche, interrogazioni, compiti in classe». E, aggiunge, anche un bel clima con gli studenti, interessati, attenti, ragazzi con cui è appassionante dialogare su tutto, senza sconti. E invece «scuole chiuse», dice Marta Maj, insegnante trentacinquenne di Milano, una cattedra di Lettere in tre classi (due seconde e una quinta) di un istituto tecnico della città.
Da pochi giorni hanno cominciato le videolezioni. E ora racconta quello che è successo a lei, nel suo piccolo, davanti a quella che ormai è dichiarata una “pandemia”. «È stato pazzesco. Sono una operativa, e abito con persone che per lavoro, in questa vicenda, sono in prima linea. E io? Come potevo stare a casa con le mani in mano? Cosa potevo fare per i miei studenti?».
 Il 22 febbraio, le ultime ore in classe. Era appena scoppiata la bolla di Codogno. «Prof, lei non ha paura?», chiede uno di seconda. Si apre una discussione: «Godiamoci l’istante», dice un altro, citando un rapper. «È una possibilità...», replica Marta: «Se la vita non è in mano nostra, come stiamo dicendo, possiamo spassarcela adesso. Oppure lasciarci prendere dal panico. Ma siamo sicuri che non ci sia un’alternativa? Se non è in mano nostra, cos’è la vita?». La domanda rimane aperta.

«Poi è arrivata la chiusura delle scuole». Marta legge un articolo di giornale. È interessante, e pone le stesse domande emerse in classe. «Ho pensato di mandarlo ad alcuni di loro, chiedendogli se quello che stavamo vivendo poteva essere un’occasione o se eravamo condannati alla noia o alla paura». Qualcuno ringrazia. «Passata la settimana di carnevale, la ripresa è stata dura. Eppure, subito, ecco le prime sorprese». Un collegio docenti incredibile: centottanta persone collegate: «Bellissimo, di solito si litiga, si discute. Si tirano fuori i sindacati e ci si lamenta delle istituzioni... Invece, ora tutti cercavano soluzioni, alcune grossolane, ai limiti dei regolamenti. C’è chi ha contattato gli studenti sui social, per esempio. Ma il tentativo era comune».



Il martedì, la sorpresa: «La prima videolezione. Li avevo contattati via mail, chiedendomi se avrebbero letto il messaggio. Sono partita con i più grandi di quinta, una bella classe. Appuntamento alle 10. C’erano tutti. E così per le due seconde. Anzi, mi sono commossa quando uno di quelli che fa più fatica, non trovando i materiali di alcune materie da scaricare, mi ha scritto che era preoccupato di non riuscire a fare i compiti».

Così eccoli, tutti connessi: «Un’esperienza nuova per tutti». C’è quello in gamba, già “sul pezzo” col suo pc. E c’è quello che sta facendo colazione, via cellulare, con il gatto che passa avanti e indietro sul tavolo. Un altro, senza timori: «Prof, glielo dico: sono ancora a letto». «“Basta che tu ci sia”, gli ho detto. C’erano, c’erano tutti, ed erano davvero presenti. Mi sono detta che era così per un “rapporto che tiene”, e non perché erano obbligati». Tutti in primo banco, «con una libertà che in classe faticano a tirar fuori». In quinta con webcam e microfoni sempre accesi per intervenire: «E non hanno fatto confusione, molto ordinati. Tu adatti le domande in modo che sia possibile rispondere a voce, e crei, magari, come in seconda per esempio, dei contest via chat». Qualcuno all’inizio aveva la webcam spenta: «Poi si è lasciato convincere ad aprirla. Entri nelle loro case, loro ti lasciano entrare. Vedi quello che vogliono mostrarti di sé, della loro vita. Perché come me, certo, avranno studiato lo sfondo dell’inquadratura...». È come stare davanti a un quadro, ora, a maggiore distanza: «Osservi cose che da vicino non vedevi. È un punto di vista ricchissimo di informazioni. E sono educata a guardarli in modo diverso».

Questi giorni stanno chiedendo tanto. Vorresti stargli vicino, ma ti accorgi di guardarli mentre cercano di rispondere a questa situazione in cui sono anche meno controllati. «Il punto non è più quello che io faccio per “tenerli”, ma la loro libertà di starci, di seguire». È qui la grande novità: «Tu sei quasi impotente. Siamo in rete, ma senza rete. Quando entri in classe la presenza fisica si accompagna spesso al retropensiero, anche senza farlo apposta, che il tuo modo di muoverti li possa tenere legati, attenti. In parte è così. Ma in questo momento labile è chiaro che è chiamata in gioco tutta la loro libertà. Potrebbero stare davanti al pc, ma non “esserci”».

Invece, quello che all’inizio non voleva neppure accendere la webcam, ora alza la mano in video per intervenire. «Può durare? Non è qualcosa che faccio io, ma qualcosa che accade o non accade». E la prospettiva che cambia di giorno in giorno, con il tempo della ripresa che si allontana, rende ancora più difficile «e interessante» la scommessa. Uno dei suoi ragazzi a fine lezione le ha detto: «Prof, quanto vorrei tornare a scuola...». «Siamo fatti per vivere, vedete? Non per star fermi», ha riposto Marta.

«Avevo mille progetti con loro. Anche di approfondire certi discorsi, di invitarli perfino a qualche incontro di Gioventù Studentesca, dove sono a tema le loro domande. Come se dipendesse da me. E invece sta accadendo qualcosa adesso, nel loro cuore». Lo legge nei messaggi che le mandano: «Hanno paura della noia, dell’essere bloccati. “Ma questo accade perché la vita ci brucia dentro!”, ho detto a uno di loro».

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A tanti livelli, dice, ci sono mosse, più o meno confuse, che aprono la domanda su cosa possa essere questo tempo: «Con una collega amica mi faccio compagnia su questo, anche per sostenere un giudizio davanti a tanti colleghi che ti cercano». Occorre guardare quello che c’è ora, alla natura e alla qualità del rapporto che emerge coi ragazzi e che li tiene legati, che li fa stare in piedi e crescere: «La didattica? Si fa di meno, per forza. Ma quando torneremo in classe dovranno legarci alle sedie per tenerci tranquilli, tanto sarà l’entusiasmo e la voglia che avremo».