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Libri per l'estate per Gioventù Studentesca

"Barabba" di Pär Lagerkvist (Jaca Book) e "Cani perduti senza collare" di Gilbert Cesbron (Bur)

Per amore o per odio
«Quelli (i Cristiani) andavano dicendo che egli era morto per loro. Poteva anche essere vero. Ma per lui, Barabba, lo aveva fatto certamente; nessuno avrebbe potuto negarlo! Lui, in realtà, era più vicino di loro a quell'uomo; gli era più vicino di chicchessia, gli era legato in una maniera affatto diversa.
Egli era stato scelto, ben si poteva dire, a non dover soffrire; scelto a salvarsi! Egli era il vero eletto, colui che era stato assolto in luogo del figlio stesso di Dio, poiché egli lo aveva voluto, per il suo comandamento! Ma lui non si impicciava della loro comunità e del loro amatevi l’un l’altro. Lui era lui».
Qui si racchiude tutto il dramma di Barabba, dell’approfondimento che ne fa il poeta Pär Lagerkvist nel suo romanzo, grazie al quale riceverà nel 1951 il premio Nobel per la letteratura.
Il punto di partenza è un fatto sconvolgente che marchia per sempre la vita del protagonista, Barabba: un uomo viene condannato a morte al suo posto. Mentre è sulla croce si oscura il cielo. E quando va a vedere la tomba dove è stato sepolto, la trova vuota.
Da quel momento la sua vita non è più la stessa: i suoi amici di scorribande non lo riconoscono più; la Grassona (non ha neanche un nome) compagna di letto nella sua vecchia vita non lo riconosce più. Non parla più con nessuno, non ha più la passione che lo contraddistingueva prima. Sembra avere un solo interesse: capire chi era quell’uomo per lui così contradditorio: che male può avere commesso un uomo così magro e gracile? Come può uno che si definisce dio lasciarsi mettere in croce? Come può soprattutto fare proseliti disposti a dare la vita per lui?

Non c’è una vera mossa nella vita di Barabba ma una convinzione sì: per sapere di Gesù, deve seguire coloro che lo definiscono “salvatore”. E non deve neanche impegnarsi più di tanto, perché questa gratuità che ha ricevuta una volta, gli si ripresenta continuamente: l’unica persona a cui nella vita ha detto di voler bene, Leporina (anche lei non ha nome) è una di loro, anzi per quella Resurrezione che afferma di aver visto di fronte a chiunque, viene lapidata. Poi per anni lavora in una miniera lavorando coi ceppi in coppia con un altro schiavo, Sahak, che si rivelerà cristiano anche lui. E lo vede pregare tutte le sere. E anche lui è disposto a morire pur di non tradire colui che ha portato l’Amore nel mondo.
Eppure Barabba non cede. In certi momenti si dichiara anche cristiano ma lo fa nel modo più sbagliato possibile: quando sente che i cristiani stanno incendiando Roma si mette ad appiccare il fuoco. E per questo viene condannato a morte: l’unico che veramente ha commesso quel crimine, insieme agli altri cristiani accusati ingiustamente, ma veramente cristiani.
In questa vita travagliata di domande, di silenzi, di rinnegamenti e di mancati riconoscimenti per un attimo, nell’ultimo istante prima di spirare, trova quella pace che ha sempre cercato.
Una riconciliazione con un Dio che gli è sempre stato accanto e che per tutta la vita lo ha aspettato. ha aspettato il suo sì, la sua adesione personale.
Tutto il romanzo ci induce a credere che ciò che conta non è solo aver incontrato qualcosa di straordinario, ma le conseguenze che lascia su di noi l’incontro fatto. Barabba il prescelto per eccellenza, che più di tutti può testimoniare quello che ha visto non può dire di abbracciare la fede finché non è vissuta personalmente.
Ma il romanzo ci induce dall’altra parte a sperare che anche alla vita più disperata, segnata dall’odio e dalla violenza (in passato ha ucciso il padre) non è negata la possibilità di un grande amore.
Auguro a tutti coloro che leggeranno questo libro di ricordarsi sempre di quando si sono sentiti toccati nel profondo da un incontro tanto inaspettato quanto desiderato. Ma soprattutto di quando hanno deciso di seguirLo e di cercarLo nelle pieghe della vita come il senso della vita. Di quando hanno percepito la concretezza e la gioia della fede sperimentando il suo unico e vero comandamento: amatevi l’un l’altro.
Andrea Carabelli - attore, regista e maestro di teatro





Gli occhi pieni di un altro
Robert Alain non ha mai conosciuto i suoi veri genitori. Pare identificarsi con quei cani randagi in cui troppo spesso si imbatte: che li senta forse vicini? Vuole trovare per loro riscatto, allontanarli da quella vita sudicia e vagabonda che riconosce anche sua.
Robert, così come Marco, Olaf, Michele, Paulo e tutti gli altri giovanissimi capitati presso il centro rieducativo di Terneray, è un ragazzo a cui manca l’amore della famiglia. Gilbert Cesbron ce li presenta come dei senza collare: non appartengono a nessuno, sono senza una casa a cui fare ritorno, perduti e dimenticati dalle proprie origini buone.
Il giudice Lamy li segue con occhi attenti e vigili, nel tentativo nobile ed appassionato di non chiudere mai la porta al cuore straripante di (inconsapevole) attesa che si portano nel petto. Lo sguardo di Lamy si aggrappa alla Speranza, lasciando da parte la macchinosità delle regole e degli schemi giuridici e penali cui pur da buon magistrato potrebbe appellarsi, cedendo il posto alla creatività e all’imprevisto della relazione. È convinto che un sorriso in volto sia possibile solamente se una volta almeno lo si è visto incarnato in qualcuno: «Ciò non può essere che un riflesso», dice.

Egli capisce che l’unico modo per entrare in rapporto con loro, smuovendoli dal pantano che li fa affondare, è penetrare nella banda, cioè stare insieme a loro, condividere la vita, le domande, lo struggimento per un’esistenza che non è come si desidererebbe e trovare vie di cambiamento. Del resto, è chiaro, anche la sua vita è segnata da ferite che deve aver potuto condividere ed affrontare con qualcuno.
Poi c’è Francesca, la “Capitana”, che per qualcuno diventa in poco tempo amica. Lavora a Terneray da molto tempo. In un dialogo con l’amata collega Mammy, durante un momento di estrema fatica riguardo al rapporto con i giovani del centro, domanda: «Non credete che mettiamo troppo amore in tutto ciò?» Le risuonano in testa le parole di quel medico con cui ha parlato a proposito di Robert Alain: «Non vogliate troppo bene al ragazzo! (…) O almeno non preferitelo… e non lasciate che si attacchi troppo a voi! [È] il male peggiore [che possiate fargli], il giorno in cui non vi avrà più».
Che non sia forse, invece, proprio quel bene la svolta? «Questo continuo donare, senza ricompensa…», che sia questa la chiave per ognuno di noi? Qualcuno che ci guardi così, senza desiderare altro che volerci bene, non è forse ciò che ci fa sentire non più perduti?
In tutti questi sguardi, Robert Alain riconosce qualcosa di singolare, di speciale, un “pieno” che li caratterizza e che li distingue da tutti quegli altri occhi vuoti che ha incontrato nella sua ancora breve vita. Imbattendosi in questi sguardi nuovi sorge in lui la domanda su di sé: «E nei miei? C’è forse dentro qualcosa?» Da questo “pieno” riconosciuto negli occhi di un altro, emerge in lui la domanda sulla consistenza di sé.
Maddalena Savorana - educatrice