Gemma Capra

Così Dio ha abbracciato la mia vita

Un delitto che ha segnato l'Italia. Quella preghiera per gli assassini, subito. E poi l’educazione dei figli, il perdono... Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, racconta «il grande dono» che l'ha accompagnata (da Tracce, marzo 2010)
Paola Bergamini

Ci sono incontri che spiazzano, per i quali magari prima avevi un’idea anche bella e quando esci ti senti cambiato. Così è stato con Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi ucciso da militanti dell’estrema sinistra il 17 maggio 1972 mentre usciva dalla sua casa di largo Cherubini a Milano. Erano i tempi bui dell’eversione, quando in nome di un’ideologia si sparava e si uccideva, cercando di far fuori quelli che, non solo all’interno delle istituzioni dello Stato, venivano visti come i nemici per l’attuazione del proprio piano. L’idea stessa di democrazia, di bene comune, era stata cancellata. Perché la persona, l’uomo, con i suoi sentimenti, pensieri, desideri non esisteva più. Era la ragione impazzita.
Al momento dell’uccisione la signora Gemma aveva venticinque anni, due bambini piccoli e un terzo in arrivo. La sua famiglia profondamente cattolica le si strinse vicino. E mentre buona parte dell’opinione pubblica continuava a diffamare la figura del marito, accusato ingiustamente dell’omicidio dell’anarchico Pinelli, lei decise che poteva ricominciare a vivere una vita normale. C’era Qualcosa su cui ricominciare a costruire. Per sé e per i figli. Dopo la nascita del terzo, iniziò a insegnare religione alle elementari. Poi l’incontro con l’artista Tonino Milite, che sposò nel 1982, e la nascita del quarto figlio. Si poteva vivere felici, senza dimenticare. Sono stati anni di indagini e processi. Nelle aule dei tribunali si è trovata faccia a faccia coi mandanti e gli esecutori dell’omicidio del marito. Non ha mai prevalso il rancore. In questi anni ha voluto raccontare, soprattutto ai giovani, la sua vicenda, per comprendere un pezzo drammatico della storia del nostro Paese e come si può ricominciare.
«Ci sono stati tanti incontri importanti nella mia vita, che hanno lasciato un segno», esordisce quando ci vediamo. «Perché sa, bisogna avere sempre gli occhi aperti alla realtà. A fine anni Sessanta per me ce ne è stato uno in particolare: quello con don Luigi Giussani». Allora, iniziamo da questo.

Quando e come ha conosciuto don Giussani?
Avevo circa 20 anni, ero fresca di diploma e lavoravo nella ditta di mio padre. I miei fratelli universitari - sono la quarta di sette - vivevano l’esperienza di Gioventù Studentesca e mi invitavano ad andare agli incontri che lui teneva alla domenica mattina in via Sant’Antonio a Milano. Ho un ricordo netto, preciso. Don Giussani, quando parlava, tuonava, perché voleva trasmettere tutto quello che aveva dentro. Ed era molto deciso, quasi severo. Mi spiego. Lui diceva: il cristianesimo è il cristianesimo, non si può venire a compromessi. Dal Vangelo si passa alla quotidianità di ognuno. Ma dietro questa “severità” nelle sue parole c’era la misericordia infinita di Dio. Non si scandalizzava di niente. Non diceva mai: «Beh, accontentiamoci di…». No. Sei amato da Dio sempre, anche quando sei nel fango, mentre sbagli. La speranza del Suo abbraccio c’è sempre, basta volgere lo sguardo. Questa cosa è riemersa quando insegnavo religione e nell’educazione dei miei figli.

I funerali di Luigi Calabresi

In che senso?
Devi accompagnare l’alunno o il figlio a dare il massimo, a capire ciò che è giusto, a cercare la verità, cosa ti chiede il Vangelo. Ma in questo non sei mai solo, perché Dio si mette al nostro fianco, ci aiuta. Questa è la misericordia infinita di Dio, che io ho sentito in modo prorompente il giorno della tragedia.

Perché? Cosa è avvenuto quel giorno?
Nel momento in cui mi hanno detto che mio marito era stato ucciso, nel dolore straziante che ho provato, ho sentito l’abbraccio di Dio alla mia vita. Difficile da spiegare. Quando lo racconto ai giovani, loro, sottovoce, dicono: «Pensieri da nonnetta». Allora aggiungo che io all’epoca avevo 25 anni, mi piaceva ballare, andare fuori a cena, vestire bene. E quella mattina ho detto al mio parroco: «Recitiamo una preghiera per la famiglia dell’assassino». Come potevo dire parole del genere? Umanamente a 25 anni io non potevo avere quella forza. L’aiuto è arrivato dall’esterno. Il Signore mi ha abbracciato dandomi il dono della fede. Il dolore e le difficoltà non sono stati tolti, ma riempiti di significato. Io provenivo da una famiglia cattolica, non bigotta, andavo a messa, pregavo, ma una fede così è stata davvero una grazia. Quel giorno ho deciso che i miei figli non potevano crescere nell’odio o nel rancore, ma nella gioia. Ciò che il Signore mi aveva donato era da “rendere” come testimonianza. Era la sola cosa che mi chiedeva.

A proposito di testimonianza, in quei giorni lei volle come necrologio per suo marito le parole di Gesù: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Cosa significa perdonare?
Quella frase fu mia mamma a indicarmela dicendomi: «Bisogna spezzare questa catena d’odio, di violenza con una frase d’amore. E cosa è meglio delle parole di Gesù sulla croce?». Io accettai. In questi anni ho ripensato più volte al significato di quella frase. Perché Gesù non ha detto semplicemente: «Vi perdono, non sapete quello che fate»? Mi sono data questa spiegazione: Gesù era figlio di Dio e uomo. Quando era sulla croce ha capito che da uomo era troppo difficile, perdonare, allora ci ha indicato la strada: chiedere a Dio di farlo al nostro posto dando a noi il tempo del cammino. Che in quel momento il Vangelo mi chiedesse di perdonare per me era impossibile, c’era bisogno di un cammino. E comunque non si perdona con la bocca o con la testa. Si perdona con il cuore. Facile è perdonare chi te lo chiede - nel nostro caso il pentito Leonardo Marino -, più difficile chi non lo chiede o non lo vuole. Ma questo non importa, è un cammino che uno fa per sé. Quando mi è stato riferito che Adriano Sofri era malato, io ero sinceramente dispiaciuta, perché era una persona con cui avevo avuto a che fare per tanti anni. Non mi dava nessuna gioia o appagamento, tanto meno mi toglieva il dolore, sapere che stesse male.

Suo figlio Mario (direttore de La Stampa; ndr) nel suo libro Spingendo la notte più in là racconta che quando gli venne offerto un posto a la Repubblica pensò di rifiutare perché il quotidiano ospitava, appunto, gli articoli di Sofri. Fu lei a dissuaderlo.
Sì. Gli dissi chiaramente che non poteva far decidere ancora a questa persona della sua vita. Se era un’occasione importante doveva accettare. Questo significa ricostruire. Io credo che un giorno riuscirò a pregare per le persone che ci hanno fatto soffrire. La difficoltà più grande in situazioni come la nostra sono le conseguenze che l’atto omicida porta.

Può spiegarlo meglio?
Incontrando le vittime del terrorismo ho visto bambini, adolescenti a cui era stato ucciso il padre avere la vita distrutta per sempre, perché la mamma non era riuscita a riprendersi, perché dentro di loro era rimasto solo il rancore, il dolore per ciò che era stato brutalmente strappato. In nome di cosa? Di un’ideologia. Il terrorismo ha strappato la quotidianità della persona, le sue passioni, i suoi desideri.

Di questo parla negli incontri a cui la invitano?
Amo parlare soprattutto ai giovani genitori e ai ragazzi. Cerco di comunicare loro, attraverso la mia storia, che con l’odio e la violenza non si arriva mai da nessuna parte. La violenza è la negazione stessa della democrazia. Cerco di trasmettere la coscienza civile del valore della persona, della loro responsabilità, di costruirsi un pensiero libero e autonomo. In questo è fondamentale la famiglia, perché è dall’aria che respirano che possono vedere e capire.

A proposito di giovani. Il dono della fede quanto ha inciso nell’educazione dei suoi figli?
Prima di tutto ho bandito il rancore. Alzarsi al mattino con la rabbia dentro significa riuccidere tutti i giorni tuo marito. Questa sarebbe stata la tragedia più grande. L’odio non ti fa vedere le cose belle della vita: tuo figlio che dice una parola nuova, un bel panorama, l’amicizia di una persona. Volevo essere felice. Questo era ancora possibile; altrimenti perché il Signore mi avrebbe fatto quel grande dono? Solo per questo sono riuscita a rinnamorarmi, a rifarmi una vita. Senza dimenticare nulla. Io volevo vivere. Ha voluto dire educarli nella gioia di vivere, nello scoprire le cose belle del mondo. A gioire, ad esempio, per una scoperta scientifica, per un fatto accaduto. Ancora oggi ritaglio articoli per me importanti e li faccio leggere al mio figlio più giovane. Ha voluto dire chiamare le cose con il loro nome: il bene è bene, il male è male. Ha voluto dire anche non scoraggiarsi, non perdere la speranza, avere pazienza. Io ero sicura che la verità su mio marito sarebbe emersa. La figura del loro papà sarebbe stata riabilitata. La speranza che davo a loro la davo anche a me stessa. Certo, ci sono voluti 11 processi... Ma io sono sicura che dare ai nostri figli input su ciò in cui crediamo e che desideriamo è fondamentale. E ha sempre un ritorno.

Un esempio?
Se io ho un momento di arrabbiatura o di cedimento per qualche commento che viene scritto a proposito di tutta la vicenda, loro quasi mi rimproverano. Loro vogliono da me quello che ho sempre dato e detto: la fede, la forza, la speranza. Vede, nonostante tutto penso che Dio mi ha voluto molto bene. Se ripenso alla mia vita: la mia famiglia, l’incontro con don Giussani che lei mi ha fatto ricordare, mio marito, i miei figli... Io sono stata una donna fortunata. Una volta l’ho detto a mia madre. E lei mi ha risposto: «Quello che il Signore ha dato a te lo dà a tutti. Ma quando Lui volge lo sguardo bisogna essere pronti a rispondere, a lasciarsi abbracciare».